Riti religiosi e riti propiziatori al tempo del Covid-19

Francesco D’Alpa Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Resteranno a lungo vive nel ricordo dei fedeli le due immagini di papa Francesco che prima procede solitario in una via di Roma (“vescovo vestito di bianco che attraversa una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante”), e poi celebra in una piazza S. Pietro deserta.

La prima evoca fortemente i grandi pellegrinaggi del passato, intrapresi per espiare un voto o chiedere una grazia; con un tocco di moderno, ovvero il rispetto della distanza sociale dalle guardie del corpo, ma pur sempre con forte ambientazione medievale. Perché è medievale la meta: la chiesa che custodisce il ‘prezioso’ crocifisso miracoloso che avrebbe salvato Roma dalla peste; e medievale è il rito propiziatorio celebrato successivamente in S. Pietro, di fronte a quello stesso crocifisso, esposto (per causa di forza maggiore!) ad una sia pur flebile intemperie.

La stampa cattolica ha prontamente accostato queste due immagini ad altre due: la prima, un Vangelo poggiato sulla bara di papa Wojtyla, dolcemente sfogliato dal vento; la seconda il martirio del vescovo bianco preconizzato nel terzo segreto di Fatima.

Soffermiamoci sulla seconda. Oserei dire: di necessità virtù; giacché per i cattolici la ricerca dei simboli conta più della disincantata analisi del reale. Cosa di più simbolico, atto all’uso, di un anziano, solitario, ansimante pastore, assorto nella preghiera? Potrei sbagliarmi, ma questa è stata la più artificiosamente costruita tra le tante immagini possibili di quel percorso penitenziale. Un uomo affaticato, solo di fronte al mistero; il solo uomo che può efficacemente impetrare una grazia in questa contingenza!

Dicevo di Wojtyla e del suo legame con Fatima. Per chi non conosce la storia, almeno tre generazioni di credenti si sono chiesti chi fosse il papa di Fatima, colui che avrebbe finalmente consacrato il mondo al “Cuore Immacolato di Maria” (secondo la pressante fastidiosa richiesta della sopravvivente veggente Lucia dos Santos). Ebbene, inizialmente i cattolici hanno ritenuto che quel papa fosse Pio XII; poi hanno concordato su Giovanni Paolo II. Ma ora il testimone potrebbe passare di mano, riconoscendolo in Francesco. Perché il vescovo colpito dalle frecce (secondo l’ingenua descrizione di Lucia di Fatima), con audace opera di morphing, può trasformarsi nel vescovo colpito dalle “frecce” della corona virale, facendo quadrare i conti con il catastrofismo; e la fine della pandemia potrebbe finire col rappresentare l’auspicato Trionfo del “Cuore Immacolato di Maria”, a suo tempo certificato da Wojtyla ma poi quasi del tutto negato da Ratzinger (ma nessuno, da sempre, può spiegare di cosa si tratti in concreto).

Perché ciò avvenga, è tuttavia necessario che qualcuno interceda; meglio se “aiutato” da una mano umana. Così, quasi inaspettatamente, abbiamo infine visto il papa durante la Via crucis pregare per medici e infermieri, più che invocare santi.

La Chiesa cattolica, come ben sappiamo, è una entità proteiforme; e vanta un ampio arsenale di risorse, fra il vecchio ed il nuovo. Così, di fronte all’emergenza, si è visto e sentito di tutto: chiese chiuse, con sdegno dei fedeli; chiese poi riaperte (per pochi), per asserita indispensabilità di confessioni e comunioni; acquasantiere prudenzialmente a secco; comunioni a distanza sociale; messe solitarie; messe televisive; adorazioni eucaristiche virtuali; rosari web; prediche WhatsApp. Ovviamente non sto qui a commentare le innumerevoli processioni, le benedizioni itineranti, i rosari domestici e quant’altro rientra nella prassi tradizionale. Ma qualcosa non convince in questo miscuglio di tradizione e modernità; esattamente tutto ciò che in qualche modo ne ossequia la seconda, che gli cede, stravolgendo precisazioni teologiche e consolidata prassi cerimoniale.

Primo esempio, la messa televisiva. Ricordo perfettamente gli anni nei quali la RAI cominciò a trasmettere la messa della domenica suscitando perplessità nei fedeli e sconcerto nel clero più tradizionalista: perché veniva indubbiamente a mancare la partecipazione attiva del fedele al rito; perché la “comunione” (sia simbolica, con l’adunanza fra i fedeli; sia pratica, con la distribuzione dell’ostia) veniva a mancare. Col tempo se ne è discusso sempre meno, fino a “benedire” questo appuntamento, divenuto abituale per molti credenti impossibilitati o pigri (e con l’indubbio vantaggio che oggi ad esempio si può assistere senza alcun disagio alle dirette da Lourdes e da qualunque altro luogo di culto!). Bene, il coronavirus potrebbe contribuire ulteriormente a radicare tale pratica. E nel contempo potrebbero intensificarsi (financo a prendere il sopravvento) le altre pratiche a distanza (ne è passato di tempo da quando Woityla premette per la prima volta in gran pompa un tasto del computer per il suo primo invio “Urbi ed Orbi” telematico; e la maggior parte delle parrocchie oggi ritengono essenziale la catechesi “on demand”).

Secondo esempio: la concessione ai medici di portare al malato in corsia l’ostia consacrata. Sembrerebbe una cosa da nulla; ed invece è cosa che sconvolge anch’essa prassi ritenute inderogabili; sulla quale si discute da tempo immemorabile, senza addivenire ad una soluzione, che oggi invece si adotta perché dettata dalla necessità: una indubbia vittoria del senso pratico sul “sensum fidei”.

Terzo esempio, fra i tanti: la confessione on the road, sul modello dell’esecuzione dei tamponi direttamente in auto. Di necessità virtù, dicevo; e al diavolo l’indispensabile sacralità dei luoghi.

Il dibattito sulla chiusura o meno delle chiese si impernia su argomentazioni tutt’altro che teologiche. Ad esempio, leggiamo «Prima se ne parlava perché sarebbero state sempre più vuote. Ora che si sono sospese le messe per il coronavirus ma si è deciso di lasciarle comunque aperte diventerebbero un veicolo di diffusione dell’epidemia. Ma non erano deserte? Che tanti italiani in queste ore si riversino in chiesa, tanto da non poter rispettare la distanza di sicurezza, sembra proprio strano» [1].

È evidente che la chiusura delle chiese fa emergere un problema di fede (oggi palesemente sottomessa alla ragione): non si crede più all’intercessione della madonna, degli angeli, dei santi? Soprattutto: i vescovi sono i primi a non credervi? Certamente non accadeva questo nella Roma di Gregorio I (nella quale si svolse una solenne processione penitenziale contro un’epidemia, dopo la quale diminuirono i contagi), né nella Milano del cardinale Federigo nel 1630 (ma allora i contagi aumentarono). Esiti diversi, ma stessa fede.

Note

[1] Riccardo Cristiano, Chiese chiuse o no?  https://formiche.net/2020/03/chiese-chiuse-o-no-papa-francesco/