Epidemie in musica, musica per le epidemie

Francesco D’Alpa Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

A differenza della tubercolosi, sulla quale sono imperniate le vicende della verdiana “Traviata” (1853) e della pucciniana “Boheme” (1896), ovvero di due delle opere liriche universalmente più amate e rappresentate, la peste ed il colera non hanno quasi per nulla ispirato i musicisti, se non principalmente in passato, e per ragioni contingenti.

L’intercessione della Vergine contro il contagio viene ad esempio invocata nella medievale gregoriana “Piissima antiphona et oratio contra luem contagiosam” (“Devotissima antifona e preghiera contro la contagiosa peste”), di autore anonimo, originata da un testo che la tradizione vuole sia stato consegnato nel 1317 da S. Bartolomeo (apparso come viandante cieco) alle clarisse del monastero di Santa Clara a Velha (Coimbra), oramai quasi decise a sospendere la clausura perché circondate da appestati:

“Stella coeli extirpavit, quae lactavit Dominum,mortis pestem quam plantavit primus parens hominum.Ipsa stella nunc dignetur sidera compescere, quorum bella plebem caedunt dirae mortis ulcere.O piissima stella maris, a peste succurre nobis.Audi nos Domina, nam Filius tuus nihil negans te honorat.Salva nos Jesu, pro quibus Virgo mater te orat”.

(“La Stella del Cielo, che allattò il Signore, ha estirpato la peste mortale che il progenitore degli uomini portò nel mondo. La stessa Stella si degni ora di domare gli astri, le cui guerre affliggono il popolo con la piaga della crudele morte. Clementissima Stella del mare, soccorrici contro la peste. Ascoltaci o Signora, poiché tuo Figlio ti onora non negandoti nulla. Gesù salvaci, poiché per noi ti prega la Vergine madre”).

Anche nel quattrocentesco “O sancte Sebastiane” (per alcuni del 1420-1426, per altri del 1441-1442) di Guillaume Dufay, viene invocata, stavolta al santo a ciò deputato, la protezione da una epidemia di peste:

“O sancte Sebastiane,
[…] Tu de peste hujusmodi
Me defende et custodi
Et omnes amicos meos,
Qui nos confitemur reos”.

(“O san Sebastiano, da questo genere di malattia difendi e custodisci me e tutti i miei amici che ci riconosciamo colpevoli”).

Gli orrori della peste che colpì Milano nel 1576-1577 sono oggetto del mottetto “Pestis Mediolanensis” (1677) di Marc-Antoine Charpentier, nel quale viene ricordato l’eroismo dimostrato durante l’epidemia da Carlo Borromeo.

L’epidemia di peste (narrata da Manzoni) che con oltre un milione di morti sterminò intorno al 1630 circa un quarto della popolazione dell’Italia settentrionale (ed oltre la metà della popolazione di città come Milano, Verona, Padova e Parma) è all’origine della maggiore produzione musicale in tema, inevitabilmente di carattere religioso. In tale frangente, Claudio Monteverdi compose il suo “Gloria a sette voci” (incluso nella celeberrima “Selva morale e spirituale”) da cantare durante il solenne rito di ringraziamento, che venne officiato a Venezia dopo la fine dell’epidemia che nel 1631 le aveva causato oltre 46.000 morti, fra i quali anche il figlio minore del musicista.

E durante le guerre, carestie ed epidemie di questo stesso secolo, è ambientato il lamento “Ich steh’ in Angst und Pein” (“Sono in ansia e in tormento”, 1641) di Simon Dach, musicato da Heinrich Albert. Qui la protagonista si affida direttamente al Signore:

Ich steh’ in Angst und Pein
Und weiß nicht aus, nicht ein,
[…] Denn werd’ ich nicht gewahr,
Wie in so großer Schar
Die Menschen stets verbleichen?
Den raffet Pest, den Glut,
Den schickt die wilde Flut
Hinunter zu den Leichen.
Die Reih’ kommt auch an mich;
Das Ende fördert sich,
Das Keinen kann begnaden;
Der Tod ist vor der Thür
[…] Ach komm, Herr Jesu Christ,
Komm! Dieses einig ist,
Warum der Mensch geboren.
Komm, mache durch dein Blut
Die Böse Sache gut;
Sonst bin ich ganz verloren!

(“Sono costantemente nella paura e tormento, e non so che strada prendere; […] Sono ben consapevole di come grandi folle di persone moriranno; prese dalla peste, o da un incendio; o spazzate dalle inondazioni selvagge verso i cadaveri. E presto sarà il mio turno; la fine sta arrivando; nessuno è lasciato fuori. La morte è alla mia porta […] Ah, vieni, Signore Gesù Cristo; Vieni, così comprenderemo perché sei nato uomo! Vieni, e con il tuo sangue muta il male in bene; nel caso contrario, sono condannato”).

Di Franz Joseph Haydn, è il Lied “Bessy Bell and Mary Gray” (1800) su testo di William Whyte, che si rifà ad un racconto popolare scozzese: due fanciulle, rifugiatesi in campagna per sfuggire alla peste diffusasi nel 1666, muoiono infine proprio di questo male perché contagiate dal giovane che porta loro il cibo, e che se ne è innamorato.

“O Bessy Bell and Mary Gray,
They are twa bonie lasses,
They biggit a bower on yon burn brae
And theekit it o’er wi’ rashes.
[…] But the pest cam frae the burrows-town,
And slew them baith thegither.
They thought to lye in Methven kirkyard,
Amang their noble kin;
But they maun lye in Stronach haugh,
To bick forenent the sin.”

(“O Bessy Bell e Mary Gray. Erano due belle ragazze, si fecero una capanna sul colle, e la coprirono di frasche. La coprirono di frasche verdi, la ricoprirono d’erica. […] Ma venne la peste dalla città, le uccise tutte e due. Pensavano di riposare al cimitero di Methuen, tra i loro nobili parenti; ma ora giacciono sulle rive dello Stronach, in preda ai raggi del sole.”)

Ancora un Lied, “Sankt Michael” (“San Michele”, 1942), di Richard Strauss, su testo di Joseph Weinheber, contiene l’invocazione a quest’altro protettore dalle epidemie:

“Der Wind weht [scharf] herein von West,
von Ost her trägt ein Sturm die Pest,
[…] Sankt Michael, salva nos!”

(“Il vento soffia forte da ponente, una tempesta porta la peste da oriente […] San Michele, salvaci!”).

Sempre nell’ambito di piccole composizioni, Francis Poulenc, celebre soprattutto per il suo commovente “Les dialogues des carmélites”, ha musicato il poema “La petite servante” (1931), di Max Jacob, che contiene l’invocazione:

“Préservez-nous des dartres et des boutons,
de la peste et de la lèpre.
Si c’est pour ma pénitence que vous l’envoyez,
Seigneur, laissez-la moi, merci.
Si c’est le diable qui le conduit
Faites-le partir au trot d’ici.”

(“Proteggici dai dardi e dai bubboni, dalla peste e dalla lebbra. E pazienza, se è per penitenza. Ma se invece è opera del diavolo, che il Signore lo faccia trottar via veloce da qua!”)

Troviamo ben poco d’altro in musica (e ciò non deve sorprendere) in tempi più vicino a noi.

L’Adagietto della Quinta sinfonia di Mahler (1904) viene dai più impropriamente associato all’epidemia di colera narrata in “Morte a Venezia” di Thomas Mann, in quanto utilizzato nella versione filmica di Luchino Visconti; laddove invece, nel suo originario contesto, intende rappresentare un momento di intimità e conforto, evocando quell’atmosfera che il compositore stesso ha definito “musica delle Sfere”. È stato invece Benjamin Britten a scrivere un’opera lirica basata sul romanzo (1973).

In ambito oratoriale è da ricordare la narrazione della peste, una delle sette piaghe d’Egitto, presente nel celebre “Israel in Egypt” (“Israele in Egitto”, 1738), di Georg Friedrich Händel. E dal campo oratoriale proviene la più sublime espressione in musica e canto di cosa sia l’amore in tempo di epidemia: nell’immortale “Das Paradies und die Peri” (“Il paradiso e la Peri”, 1843) di Robert Schumann. In uno dei suoi episodi, una donna abbandona il palazzo del padre per raccogliere con un bacio il respiro di un giovane morente di peste e condividerne compassionevolmente il destino.

Dobbiamo aggiungere a questi due capolavori l’opera-oratorio “Oedipus Rex” (“Edipo re”, 1927) di Igor Stravinskij nella quale, come nella tragedia di Sofocle, è elemento chiave il tema della liberazione di Tebe dalla peste.

Per quanto attiene invece al teatro in musica, ho trovato ben pochi esempi. Il tema della peste è inevitabilmente presente in “I promessi sposi” (1856) di Amilcare Ponchielli, opera comunque di ben scarsa fortuna. Solo incidentalmente, il colera che colpisce la protagonista viene citato nell’interludio del secondo atto della “Lulu” (1937) di Alban Berg. L’unica opera lirica nella quale la peste ha un ruolo centrale sembra essere “Il banchetto durante la peste” (1901), atto unico di Cezar’ Antonovič Kjui, dal racconto omonimo di Aleksandr Sergeevič Puškin; produzione di modesto valore, e ben presto dimenticata. L’azione vi si svolge a Londra, nel 1665. Il banchetto è quello nel corso del quale prima si brinda in onore di un amico vittima della peste, poi ci si abbandona al divertimento, senza alcun rispetto verso i morti, proprio mentre risuona l’incedere sinistro di una processione funebre.

A compensare queste esigue presenze teatrali, è quasi doveroso citare quanto l’operistica deve in qualche modo alle epidemie. Fu infatti proprio la carenza a Napoli di organici vocali e strumentali, dovuta ad una pestilenza, a suggerire nel 1733 a Giovanni Battista Pergolesi la composizione di un’opera di struttura quasi rudimentale, da subito celebrata quale capolavoro assoluto: “La serva padrona”, iniziatrice di un genere musicale innovativo, poi ampiamente frequentato, cui si rifaranno in seguito (nella leggerezza che lo anima) anche Wolfgang Amadeus Mozart (“Le nozze di Figaro”, 1786)) e Gioachino Rossini (”Il barbiere di Siviglia”, 1816).

Concludo, passando a tutt’altro genere, con due richiami al tema della peste (ma di tutt’altro intento, rispetto al passato) contenuti nei testi nell’odierna musica “leggera”; due cosiddette citazioni “d’autore”.

La peste”, uno dei brani di “Anche per oggi non si vola”, di Giorgio Gaber (1974) cita questa malattia come metafora della dissoluzione delle certezze sociali; e il conclusivo brano dell’album, “C’è solo la strada”, paragona la quarantena ad una misura di contenimento politico (in tempi di rigurgiti fascisti) dell’impegno civile:

“Un bacillo che saltellaChe si muove un po’ curiosoUn batterio negativoUn bacillo contagioso
[…] La gente ha pauraComincia a diffidareSi chiude nelle case
[…] Un batterio negativo
Un bacillo a manganello”.

Anche in “Bravi ragazzi” di Edoardo Bennato (del 1971), la quarantena è la metafora di una misura di contenimento sociale:

“E pensare che all’inizio
Sembrava quasi un gioco
Ora non c’è più tempo per pensare
Tutti dentro, chiusi ad aspettare”.