Pensare lentamente

Stefano Scrima Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Ne Le confessioni (1782-1789) il filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau si lamenta della sua lentezza di pensiero, una condizione che non gli permette di avere la prontezza di spirito che necessitano dibattito e confronto pubblico:

Due cose pressoché inconciliabili s’uniscono in me senza che io possa spiegarmi come: un temperamento focosissimo, passioni vive, impetuose, e una lentezza a nascere d’idee, impacciate, che non si svegliano mai che a cose fatte. Si direbbe che il mio cuore e la mia intelligenza non appartengano al medesimo individuo.

Questo aspetto di Rousseau mi ha sempre affascinato; forse perché mi ci rivedo. Tuttavia, non è solo una questione di timidezza o insicurezza, poiché, aggiunge Rousseau:

Questa lentezza nel pensare, unita alla vivacità del sentire, non l’ho soltanto nella conversazione, ma anche da solo e quando lavoro. Le idee si organizzano nella mia testa con incredibile fatica: vi circolano sordamente, vi fermentano sino ad agitarmi, ad affocarmi, a darmi palpitazioni; e immerso in tutta questa emozione, non vedo nulla nitidamente, non saprei scrivere una parola, bisogna che aspetti. A poco a poco, questo gran movimento s’acquieta, il caos si dipana, ogni cosa va al suo posto, ma lentamente, e dopo una lunga e confusa agitazione.

Questo impietoso autoritratto mi ha accompagnato negli anni ed è diventato per me una sorta di metro di giudizio della società. Sono un osservatore con la passione del pensiero e non posso non stupirmi di come l’umanità non riesca mai a imparare dai propri errori. Mi sembra di rivedere nell’umanità la stessa logica del figlio ribelle che, consapevolmente o no, commette il medesimo errore del padre per rendersi conto solo a cose fatte di quanto sarebbe stato meglio non farle. E d’altronde, come dargli torno: la vita è un tentativo e se non si tenta, anche rischiando di fallire, non si vive. Abbiamo il diritto di farci male, se non conosciamo il male. È come se ogni essere umano, alla sua nascita, debba necessariamente ripercorrere il cammino umano dalle sue origini a oggi, errori compresi, per imparare davvero cosa significa essere uomini. Ma è forse una visione troppo poetica, soprattutto perché non tutti alla fine del percorso giungono a questa consapevolezza: la maggior parte degli uomini sguazza tutta la vita nella propria ignoranza. E il peccato mortale non è tanto essere ignoranti, condizione naturale, ma non aver alcuna intenzione di non esserlo, anzi, esserlo ed essere convinti di non esserlo. Questo tipo di ignoranza la chiamerei stupidità, e detta così appare dunque come una condizione patologica, non imputabile a chi ne “soffre”. Come si fa a chiedere a uno stupido di non essere stupido? È stupido, non lo capirebbe! Ma continuiamo a leggere il ginevrino ed entriamo nel vivo di questo “pensiero lento”:

Non capisco nemmeno come si osi parlare in un circolo, giacché ad ogni parola bisognerebbe passare in rassegna tutti i presenti, bisognerebbe conoscere il carattere di tutti, sapere le loro storie, per essere sicuri di non dire nulla che possa offendere qualcuno. […] A tu per tu, c’è un altro inconveniente che trovo anche peggiore, la necessità di parlare sempre: se l’altro parla si deve rispondere, e se non apre bocca bisogna ravvivare la conversazione. Quest’insopportabile costrizione sarebbe bastata a disgustarmi della mondanità. Non esiste per me imbarazzo più atroce che l’obbligo di parlare a comando e a getto continuo. Non so se questo dipenda dalla mia mortale avversione per ogni sorta di asservimento; ma basta che io debba parlare a tutti i costi perché infallibilmente esca in un’idiozia.

In questa riflessione ci sono troppi spunti, e potrebbero portarci fuori strada. Andiamo con ordine:

1) per parlare bisogna conoscere, altrimenti si dicono stupidaggini;

2) non è sempre necessario parlare: a volte non si sa cosa dire. Ecco, in quel caso la miglior cosa da fare è non dir nulla;

3) parlare a tutti i costi, “costretti” dalle leggi non scritte del vivere sociale, porta spesso a far figure grame – con noi stessi in primis. La maggior parte delle cose che diciamo tanto per dire sono idiozie. Di qui il naturale collegamento a Facebook e agli altri social network, le nuove dimensioni sociali del nostro tempo. Il compulsivo “commentare”, apparentemente innocuo, soprattutto se fatto sull’onda dell’emozione senza conoscere a fondo ciò di cui si sta parlando (per non dire del danno che fa dare adito all’infinità di notizie false che il web veicola), può al contrario innescare rancore gratuito che viene inevitabilmente riversato sugli altri nella vita “reale”, nonché la convinzione, dura a morire, di conoscere ciò di cui siamo invero del tutto all’oscuro.

Vivere in un mondo di pensatori veloci (come la gran parte dei nostri rappresentanti politici, degli attori che popolano i talk show e, come appena detto, dei “commentatori” compulsivi di Facebook) non è affatto facile e può far soffrire, come soffriva lo stesso Rousseau, perché ci si sente diversi, emarginati. Eppure, Rousseau lo ha dimostrato, il suo pensiero lento è rimasto indelebile, al contrario delle parole proferite senza pensare dai suoi logorroici interlocutori. Io lo ringrazio per essersi mostrato nelle sue debolezze, o meglio in quelle che la società dell’apparenza ritiene essere debolezze, che in realtà sono la più grande forza, la forza del conoscere e ragionare. Il pensiero lento è il miglior custode del vivere sociale. Chi non entra nel travaglio del pensare, confrontandosi con la realtà, informandosi, sfatando pregiudizi, non rispetta niente e nessuno. E come si fa a vivere in una società libera e pacifica, a parole, composta da persone che non si rispettano? È un ossimoro.

Ma come la mettiamo con chi pensa che Rousseau, coi suoi mirabili scritti frutto di un lento e misurato pensare, abbia posto le basi per la giustificazione teorica del totalitarismo, poi messo in pratica dai giacobini fino ai dittatori del Novecento e oltre? Anzitutto non è sempre detto, anche se più probabile, che dalla profondità di pensiero nascano solo cose positive e al contrario dalla superficialità solo cose negative. Secondo poi, ogni pensiero, anche il più profondo, va sempre a sua volta ri-valutato dal nostro pensiero lento. Appunto perché non ogni pensiero scaturito dal ragionare risponde a quello che da esso ci aspetteremmo, è necessario stare sempre in guardia e correggere ciò che va contro il suo stesso proposito. Infine, purtroppo, sappiamo che l’essere umano non è estraneo alla strumentalizzazione della ragione a fini ben poco nobili.

Per evitare ulteriori incomprensioni: il pensiero veloce, in alcuni casi, è fondamentale. Un medico del pronto soccorso che si vede arrivare un codice rosso, un vigile del fuoco di fronte al divampare di un incendio, non possono “perdere tempo” a riflettere. Devono agire. C’è anche da dire, però, che i medici e i vigili del fuoco hanno le competenze per potersi affidare al pensiero veloce. Non è così per tutti. Certo, quando è la vita ad essere in pericolo sono d’accordo, bisogna sapere immediatamente cosa fare. Ma, per tutto quanto il resto (e mi riferisco in particolare ai social network), è meglio fermarsi e “sprecare” qualche minuto in più a pensare.

Estratto da “Socrate su Facebook. Istruzioni filosofiche per non rimanere intrappolati nella rete” di Stefano Scrima, Castelvecchi editore ©2018 Lit Edizioni s.a.s. Per gentile concessione.