L’iceberg, la savana, la toga.

Conversazione con l’avvocato Antonio Forza

Stefano Bigliardi    Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Affascinato e incuriosito, ma anche un po’ inquietato, dalla lettura de Il giudice emotivo, ho raggiunto uno degli autori, l’avvocato Antonio Forza, per un approfondimento dei temi trattati nel libro [1]. Antonio Forza è avvocato cassazionista e docente presso il Master di Psicopatologia e Neuropsicologia Forense dell’Università degli Studi di Padova.

Stefano Bigliardi (SB): “Avvocato Forza, cominciamo con una domanda semplice: come nasce il libro Il giudice emotivo?”.

Antonio Forza (AF): “All’origine c’è la tesi magistrale, da me seguita, di Giulia Menegon, all’epoca eccellente studentessa e attualmente avvocato internazionalista in Svizzera. La tesi in questione trattava un tema che mi affascinava, e il titolo, scelto dall’autrice, è diventato in seguito quello del libro. La tesi fu da me mostrata, dopo la sua discussione e il conseguimento del titolo magistrale da parte di Menegon, al professor Rino Rumiati, che ora è in pensione, ma che all’epoca insegnava alla Scuola Galileiana di Studi Superiori presso l’Università di Padova. Il professore è uno dei grandi esperti di psicologia della decisione. Non solo confermò che il tema era poco conosciuto, ma anche che la tesi era di valore. Si decise dunque di ricavarne un libro, nella cui realizzazione ovviamente è stata ampiamente coinvolta l’autrice originaria, anche se va detto che il testo integra e modifica quello del lavoro di partenza a un punto tale che quest’ultimo non è più riconoscibile. Ciascuno ha scritto parti di testo che poi sono state amalgamate stilisticamente dal sottoscritto, traducendole in un linguaggio che non è né linguistico né psicologico, ma cerca di essere di facile acquisizione anche al lettore non strutturato. Per inciso io sono, per così dire, un ‘soggetto anomalo’, perché mi sono sempre occupato di psicologia giuridica, quindi, per usare metaforicamente un’espressione del diritto canonico, io sono qualificato in utroque, in entrambi i soggetti, potendo quindi fungere da collegamento”.

(SB): “Entriamo allora nel vivo del discorso. Il libro non è semplicemente finalizzato a lamentare e denunciare il ‘lato umano’ e quindi fallibile dei giudici, ma cerca di rivedere profondamente la nostra concezione di individuo razionale, ponendo rimedio al cosiddetto ‘errore di Cartesio’, cioè una concezione della razionalità in cui le emozioni (Cartesio avrebbe detto: le passioni) hanno un’importanza marginale e tutt’al più sono qualificate come interferenze rispetto a una razionalità, per così dire, olimpica, algida, logica, che dovrebbe essere quella idealmente usata dai giudici nell’esercizio delle loro funzioni professionali. Scopriamo invece, sulla scorta delle acquisizioni delle neuroscienze contemporanee, che la stessa suddivisione tra ragione ed emozione perde di senso”.

(AF): “Esattamente. Dobbiamo recuperare, anche se riformulandola, un’immagine che era di Freud, ossia quella dell’iceberg. La mente razionale ne è la punta, mentre la parte più consistente di questa massa di ghiaccio che si sposta nei mari è sommersa. Freud, intendiamoci, usava la metafora in riferimento all’inconscio, definendo quest’ultimo secondo la propria teoria. Il nostro studio non è di impostazione freudiana, ma analogamente cerca di evidenziare l’esistenza di una ‘massa sommersa’, rispetto a cui quello che conosciamo della mente è solo una piccola punta emergente. Questa massa sommersa è l’inconscio cognitivo, ben diverso dall’inconscio freudiano. L’inconscio cognitivo è un inconscio fatto di diversi inconsci. Per quello che si inizia a sapere grazie alla psicologia evoluzionistica, noi operiamo con due modelli conoscitivi. Il primo è chiamato S1, ed è costituito dalla nostra eredità biologica di animali, umani ma pur sempre animali, che con l’evoluzione hanno sviluppato una serie di modalità di affrontare i problemi concreti, della quotidianità, e tuttora usano lo stesso modello che utilizzava l’essere umano che viveva nella savana. Il secondo modello, o S2, è quello più avanzato, e corrisponde, grosso modo, alla razionalità logica, argomentativa, scientifica. Il primo modello ovviamente ha la sua ragione di essere e la sua utilità in un contesto in cui la sopravvivenza è essenziale, e l’essere umano si rapporta a minacce concrete e immediate. Nel contesto della savana, se percepisco un’ombra o un movimento che può corrispondere a un animale pericoloso, non posso fermarmi, acquisire dati, e mettermi a calcolare la velocità e la distanza del presunto predatore, la mia rapidità in rapporto a quelle, ecc.: scappo, e basta, o se ho un’arma la uso, ed è la decisione migliore che possa prendere. Questo però non ha nulla di razionale. Eppure la fuga o la lotta sono tuttora modalità a cui ricorriamo, pur essendo usciti dalla savana”.

(SB): “Quindi, se posso riassumere in una formula, noi non pensiamo come pensiamo di pensare, ma ci sono in atto nel pensiero una serie di meccanismi inconsci e pre-logici, non razionali”.

(AF): “Sì, e si tratta di meccanismi che sono sopravvissuti perché i nostri predecessori che non li avevano sono stati spazzati via dalla selezione naturale. I loro geni non sono stati trasmessi. Noi pensiamo che tutta una serie di nostre attività siano basate sulla razionalità, e invece non è così. I meccanismi che assicuravano la sopravvivenza nella savana sono ancora lì, e questo anche in contesti del tutto diversi. Per esempio se n’è accorto Herbert A. Simon [1916-2001, ndr], psicologo cognitivo premio Nobel [per l’economia nel 1978, ndr], che dimostrò che la razionalità non è per esempio utilizzata dagli investitori. Di recente, con lo stop dei governi europei al vaccino AstraZeneca in seguito a casi di trombosi in alcuni soggetti appena vaccinati, abbiamo visto l’espressione di un altro bias, o scorciatoia pre-scientifica del ragionamento. Si tratta del bias di correlazione, una modalità inconscia di risolvere i problemi. Si è ritenuto che la causa di determinati decessi potesse identificarsi nell’inoculazione del vaccino, semplicemente perché quest’ultima ha preceduto tali morti. Ma una precedenza di tipo temporale non è sufficiente a stabilire una correlazione di tipo causale. Questo modo di ragionare ha una sua sensatezza e utilità pratica in un contesto di incertezza primitivo e di emergenza, quello appunto della savana, in cui si richiedano decisioni rapide e immediate. Se qualcuno muore dopo avere mangiato determinate bacche, e non ha un laboratorio a disposizione, meglio smettere di mangiare quelle bacche. Certo però che la valutazione dell’efficacia e degli effetti collaterali di un vaccino deve seguire un procedimento più complesso, quello del ragionamento determinato e scientifico …”.

(SB): “... E che di fatto è già stato seguito per approvare il vaccino, nel momento in cui il vaccino comincia ad essere usato. Forse, peraltro, le agenzie governative che hanno deciso lo stop, oltre che il bias hanno seguito una logica ‘mediatica’, per cui, una volta diffusi la paura e il dubbio, si è pensato di fermare o di ricontrollare, o per lo meno di far vedere che si ricontrollava, per non irritare o turbare l’opinione pubblica. Tornando a Il giudice emotivo, il libro chiarisce molto bene fin dalle prime pagine che i nostri sistemi giuridici, in particolare, ma non solo, quello italiano, sono innestati su di una visione della razionalità che risale a tempi in cui di psicologia evoluzionistica non si sapeva nulla, e quindi il modello di ragione a cui sono ispirati è quello della razionalità olimpica”.

(AF): “Sì. Le euristiche, cioè le ‘scorciatoie del pensiero’, e i bias, funzionano perfettamente anche nella testa dei giudici e dei pubblici ministeri. Questi ultimi, sulla base di una disamina superficiale degli elementi di prova, avviano un procedimento senza porsi grandi problemi di valutazione. Per esempio un PM può ricevere un fascicolo dal comando dei Carabinieri di un dato luogo. Il fascicolo in questione già contiene di suo una narrazione basata su una serie di elementi che dai Carabinieri sono stati ritenuti probanti rispetto a un fatto delittuoso. A questo punto il pubblico ministero dovrebbe ripercorrere a ritroso il percorso che hanno compiuto loro, ponendosi anche il problema di una loro possibile superficialità, costituita dal trascurare alcuni elementi e dal caricarne altri di significato. Il PM però, con ogni probabilità, non metterà in atto questa disamina. Questo non necessariamente succede per una questione di carattere individuale, ma di tempo, a meno che proprio il pubblico ministero in questione non abbia la forte convinzione che quei determinati Carabinieri di quella determinata compagnia siano dei pasticcioni. Di solito, quello che il PM fa è andare in cerca di elementi a conferma di quelli che gli sono stati inoltrati all’inizio, adagiandosi su un bias che è quello della conferma. Vi è la necessità di prendere consapevolezza di questi meccanismi decisionali che possono portare fuori strada sia l’inquirente sia il giudicante. Occorre un’opera di formazione straordinaria facendo acquistare al magistrato la consapevolezza della sua umanità.

In Italia, dal punto di vista processuale, è stato a lungo in vigore un modello inquisitorio, in cui cioè la prova si formava fuori dal processo, nella fase tecnicamente detta istruzione. Dal 1989 però le cose sono cambiate. Da quell’anno si comincia a mettere in pratica l’introduzione del nuovo codice di procedura penale, varato nel 1988 con Decreto del Presidente della Repubblica. Da quel momento in poi si abbraccia un modello processuale di natura accusatoria. La prova, così chiamata nel senso tecnico, è quella che si forma davanti al giudice, il quale deve vedere, attraverso un meccanismo dialettico di tesi, antitesi e sintesi, come la prova si forma. Un tempo il testimone veniva interrogato dal maresciallo dei Carabinieri e il verbale risultante era la prova. Oggi il maresciallo non c’entra più: il testimone è esaminato in aula dal pubblico ministero, che impiega domande formulate sulla base di precisi criteri indicati dal codice, che proibisce le domande suggestive, negative, o comunque domande che inducano a rispondere sulla base della tesi che il PM ha in testa. La difesa conduce un controesame finalizzato a far vedere come le risposte date al primo siano in realtà inadeguate a formare la prova. Il giudice, prendendo gli esiti dell’esame e del controesame, fa la sintesi.

La questione più importante e rilevante sul piano epistemologico, nel caso sia della prova dichiarativa sia della prova scientifica, è che il nostro legislatore a un certo punto [nel 2006, con la Legge Pecorella, ndr] ha introdotto il principio secondo cui il giudice può condannare quando si è costituita la prova ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’. Se si ragiona con la mente lucida e si usa il sistema S2 si può arrivare a scoprire che determinati, ragionevoli dubbi, inficiano la prova. Ma si pone anche il problema che la controprova data dalla difesa non ha bisogno di uno standard di pienezza; sono ammesse anche controprove al 60, 70, 80% che rappresentano il ‘ragionevole dubbio’. In questi meccanismi si insinuano i bias del giudice e del pubblico ministero”.

(SB): “Le neuroscienze, se ci mettono in guardia rispetto ai ‘punti ciechi’ di pubblici ministeri e giudici, possono però essere anche chiamate in causa per testimoniare di ‘difetti di base’ degli imputati. Rispetto a questi ultimi un esperto potrebbe testimoniare che hanno agito a causa di un’inclinazione inconsapevole e innata. Il che peraltro potrebbe essere interpretato in modi diversi: o per attenuare la responsabilità, o per ribadire la necessità di mettere il soggetto sotto chiave in quanto … delinquente naturale. Alla luce delle neuroscienze dobbiamo rivedere, oltre che il concetto di razionalità, anche quelli di colpevolezza e innocenza?”.

(AF): “In realtà il disegno complessivo del libro è molto più modesto, appuntandosi soprattutto su giudici e pubblici ministeri. Ma in effetti almeno un passaggio del libro menziona quel tipo di consulenza in aula [in particolare, le pagine pp. 46-49, ndr]. Il senso del passaggio è però un po’ diverso da quanto lei suggerisce. Vediamo di inquadrarlo meglio. Immaginiamo per esempio che un neuroscienziato dimostrasse che un soggetto ha delle tendenze pedofiliche. Se il pubblico ministero potesse introdurre una prova di questo genere, il neuroscienziato fornirebbe a lui e al giudice uno strumento estremamente insidioso. In altre parole, se un soggetto tratto a giudizio per una ipotesi di pedofilia si trovasse oggetto di un accertamento neuroscientifico che ne dimostrasse una tendenza costituzionale, sarebbe condannato quasi sicuramente. Si innescherebbe, insomma, un meccanismo di bias rispetto alla testimonianza stessa delle neuroscienze. In realtà nel nostro sistema processuale c’è un presidio, il secondo comma dell’Articolo 220, che impedisce di introdurre nel processo una perizia psicologica [2]. In questo senso il legislatore dell’epoca, che pure non prevedeva gli sviluppi delle neuroscienze, ha posto un freno al loro utilizzo in fase di costruzione della prova. Sviluppi che poi, attenzione, ci sono stati. Ho fatto l’esempio estremo, e fittizio, della pedofilia, ma in realtà esistono risultati scientifici che dimostrano la tendenza di certi soggetti a condotte antisociali. Nel nostro ordinamento abbiamo questo tipo di garanzia, perché si è scelto di valutare il soggetto in ragione del singolo caso e a un dato momento. Esistono, tuttavia, visioni di tipo diverso, del concetto di crimine e di criminale”.

(SB): “Quindi, se comprendo correttamente, il suggerimento di fondo è: occorre tener conto delle acquisizioni delle neuroscienze al fine di promuovere l’autoconsapevolezza del giudice e del pubblico ministero, tuttavia non è opportuno  portare le neuroscienze in aula per far pendere uno specifico giudizio da una parte o dall’altra”.

(AF): “È così, ma attenzione al contesto del nostro discorso: l’esperienza di riferimento in questo caso non è quella del processo italiano, che è ancora molto timida, e che comunque vede la presenza del presidio che menzionavo prima, ma quella del processo americano. Il processo statunitense, in particolare in alcuni Stati, sta dimostrando dei grossi limiti, soprattutto perché le neuroscienze creano nella testa dei giudici popolari, cioè della giuria, dei convincimenti erronei, nel senso che si dà per scontata l’affermazione del neuroscienziato come se solo questa bastasse ad arrivare a delle conclusioni.

Questo poi rimanda a un altro problema ancor più rilevante, ossia l’esistenza di pseudoscienziati e di tesi pseudoscientifiche che potrebbero avere un impatto sul processo. Negli Stati Uniti, la Corte Suprema ha determinato, in seguito al caso Daubert [nel 1993, ndr] quali sono i criteri sulla base dei quali è accettabile un certo tipo di scienza in un processo, criteri che dal punto di vista epistemologico sono molto rigorosi. Le neuroscienze possono creare una forte suggestione. In realtà non sappiamo ancora perché un soggetto arriva a una certa determinazione, o se è sano e malato. Abbiamo delle teorie che stanno dietro a certe spiegazioni, ma quelle stesse teorie non sono perfette. Per esempio, fino a qualche anno fa si parlava di correlati neurali, mettendo determinate aree del cervello in relazione a determinate facoltà: la memoria, la razionalità, il controllo degli impulsi, e così via. Attualmente questa visione viene criticata. Analogamente, il colloquio psichiatrico, con cui da tempo si accerta se una persona sia in grado di intendere e di volere, è stato messo scientificamente in dubbio e ora si sa che ha una probabilità di ‘prenderci’ che è pari al cinquanta percento: come lanciare una monetina. Quindi, attenzione alle distinzioni: raccogliere l’indicazione delle neuroscienze rispetto ai limiti dei giudici e dei pubblici ministeri va bene, ma portare il neuroscienziato in aula per formare la prova non sempre può essere ammissibile: perché sappiamo che le sue teorie potrebbero non essere così solide, o che addirittura un individuo potrebbe essere portatore di una pseudoscienza sotto le spoglie della neuroscienza. Il sistema statunitense è peraltro più vulnerabile rispetto a queste ultime minacce perché nel nostro sistema abbiamo dei giudici ‘togati’, cioè formati attraverso prima l’istruzione specifica e poi un insegnamento permanente attraverso ad esempio scuole regionali, mentre negli Stati Uniti ci sono dei giudici popolari che possono facilmente essere convinti da persone presentate come esperte. Le neuroscienze hanno questa caratteristica: che stanno dicendo molte cose sul funzionamento del cervello e della mente, ma non dicono tutto. Il loro è un work in progress. Sia anche ben chiaro, peraltro, che la sola formazione giuridica dei magistrati, nel nostro sistema, è insufficiente ad amministrarne l’evoluzione”.

(SB): “Quindi, ferma restando la constatazione della superiorità del nostro sistema, o comunque la maggiore tutela rispetto a certe insidie, secondo lei quali margini di miglioramento ci sono?”.

(AF): “I margini sono tutti legati alla necessità di portare i giudici ad approfondire questi meccanismi. È un problema soprattutto di formazione. Occorre pensare che la scienza deve avere un certo spazio nel processo. Non si tratta di modificare l’iter processuale, ma di usare dei dispositivi che già ci sono, raccogliendo in pieno, e al tempo stesso con cautela, gli sviluppi delle neuroscienze. Un giudice può avvalersi del neuroscienziato per riuscire a capire se una prova dichiarativa (cioè, in parole povere, una testimonianza) è una prova fondata o meno. Esiste per esempio lo IAT, o Implicit Association Test. Questo test misura le nostre associazioni inconsce come l’attribuzione di qualità negative da parte di una persona bianca rispetto a una persona di pelle scura (ma lo stesso vale per i neri rispetto ai bianchi). Il computer misura la velocità di una risposta, che è tanto maggiore quanto più la risposta è genuina e vice versa. Quindi, è possibile valutare se un teste è genuino o no, usando una macchina e una scaletta di domande. Per inciso, questi temi possono essere approfonditi leggendo il libro di Martina Jelovcich Le frontiere del giudizio di attendibilità dichiarativa: potenzialità e limiti delle neuroscienze in ambito penale (Giuffrè, 2020).

Il Codice contiene una precisa norma, nell’Articolo 196, comma 2, secondo la quale il giudice può disporre una consulenza per la valutazione di un testimone: ‘qualora, al fine di valutare le dichiarazioni del testimone, sia necessario verificarne l’idoneità fisica o mentale a rendere testimonianza, il giudice, anche d’ufficio, può ordinare gli accertamenti più opportuni con i mezzi consentiti dalla legge’. C’è anche, nell’Articolo 189, una norma di apertura fondamentale rispetto a ‘prove non disciplinate dalla legge’ che il giudice può assumere se esse risultano idonee ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudicano la libertà morale della persona. Eppure, si riscontra una resistenza da parte dei giudici, perché l’adozione di questi strumenti comporta per loro una perdita di potere rispetto al neuroscienziato. Lo strumento, in altre parole, è poco adoperato, perché il giudice è convinto di saper fare la valutazione, e quindi esercita un potere arrogandosi il diritto di giudicare a prescindere dalla necessità che invece il caso potrebbe suggerire. Non si tratta, ripeto, di riformare il processo, ma di sfruttare degli strumenti che già ci sono. La Corte di Cassazione ha già preso in esame lo IAT, siccome è utilizzato da una serie di neuroscienziati italiani molto di moda in questo momento. Ma a quanto pare i giudici di Cassazione hanno una visione ambigua: lo IAT è accettato come strumento impiegato dalle Procure, ma non sempre quando sia adoperato dalle difese”.

(SB): “Ho notato che il libro spesso fa riferimento al lavoro di Enrico Altavilla (1883-1968). Quanto è diffusa la consapevolezza dei suoi insegnamenti? E il vostro libro mi sembra essere all’avanguardia ... ma è anche isolato?”.

(AF): “Altavilla è stato uno dei padri della psicologia giuridica, autore di un libro fondamentale a metà degli anni venti, erede della scuola positiva in ambito giuridico, uno dei primi che si è occupato di studiare le dinamiche psicologiche all’interno del processo penale. La conoscenza di Altavilla al momento è praticamente a zero. Il nostro libro, in Italia, è sicuramente all’avanguardia. Consideri che in quasi tutte le università del mondo si insegna economia comportamentale, raccogliendo l’insegnamento di figure come il succitato Simon, ma anche Daniel Kahneman (Nobel per l’Economia nel 2002) e Richard Thaler (Nobel per l’Economia nel 2017). Gli economisti hanno capito subito da che parte va il mondo e hanno introdotto questa disciplina. I giuristi non sanno nemmeno che esista. La ragione è da ricercarsi nella riforma degli ordinamenti universitari di Gentile, del 1929. Gentile riteneva che la psicologia fosse una branca della filosofia dello spirito, e quindi per lui l’insegnamento della filosofia bastava. A causa di questa impostazione ideologica ci siamo bloccati nell’introdurre prima di tutto l’insegnamento della psicologia nell’università. Le Facoltà di psicologia nascono nel 1970-71, prima erano scuole di un paio d’anni affiancate a Magistero o Filosofia a cui potevano accedere medici, filosofi e laureati in giurisprudenza. Quindi, se da un lato il codice di procedura penale italiano contiene elementi che potenzialmente possono essere ricettivi nei confronti della lezione delle neuroscienze, dall’altro però esiste una resistenza o arretratezza culturale molto forte, che rimanda a impostazioni prese quasi un secolo fa”.

(SB): “Quali sono i Paesi all’avanguardia in questo senso?”.

(AF): “Direi, tra tutti, forse l’Inghilterra, in cui ci sono delle linee guida sull’acquisizione della testimonianza del minore, che ricevono tutti gli approfondimenti della psicologia”.

(SB): “Un’ultima domanda relativa al nostro contesto culturale. Il libro accenna all’influenza negativa che può essere esercitata dalla mediatizzazione dei processi. L’Italia è il Paese di Un giorno in pretura, programma di lunghissimo corso e amatissimo, che, in tutta onestà, io stesso seguo regolarmente. Mi sono tuttavia accorto, andando al di là di un semplice apprezzamento ‘estetico’ per le storie proposte, che il programma in questione (e a maggior ragione altri, come i talk show e i tantissimi documentari a carattere criminologico) non offre schede di approfondimento sulle ‘regole del gioco’, per esempio. Cioè, se voglio sapere, da profano del diritto, qual è esattamente, secondo il nostro Codice, il ruolo del giudice, del pubblico ministero, della difesa, ecc., devo documentarmi altrove. Allora, mi chiedo e le chiedo: la presenza di questi programmi contribuisce alla alfabetizzazione giuridica dei non esperti, me incluso, o piuttosto ne crea l’illusione, mentre fa loro consumare un prodotto soprattutto narrativo, che peraltro, anche se sottilmente, influenza il giudizio di chi guarda, attraverso un certo modo di presentare, la scelta delle fasi del processo, le inquadrature stesse, e così via?”.

(AF): “Questo tipo di programmi, a mio vedere, non ha una valenza didattica. Io stesso mi sento spesso rivolgere la domanda, ovviamente ispirata dalla rappresentazione mediatica di questo o quel processo, ‘secondo te il Tale è colpevole o innocente?’. Io non rispondo mai. Perché solo conoscendo le carte del processo sono in grado di dire qualcosa, e alle volte pure in quel caso non sono in grado di dire nulla, perché devo farmene una ragione, approfondire, fare delle indagini per poter capire gli spazi difensivi, ecc. Una trasmissione che ripercorre le fasi del processo (penso a quello Pacciani) più che altro prende atto di una vicenda umana, più o meno morbosa, che fa sicuramente audience, che appassiona, ma che non serve a nulla, giuridicamente parlando. Lo stesso vale per la cronaca nera, che induce i lettori a posizionarsi subito come innocentisti o colpevolisti”.

(SB): “Come si potrebbe strutturare altrimenti un programma, per evitare questi difetti?”.

(AF): “Certo, sarebbe meglio se il programma sul processo iniziasse con una ricostruzione dei documenti e delle testimonianze. Ma anche in quel caso sarebbe un contesto di carattere storico. È vero che il giudice sostanzialmente si comporta come uno storico, nel valutare le carte che gli vengono proposte dall’accusa e dalla difesa; un po’ tutte le professioni che sono il portato di una ricerca di elementi per poter arrivare a un giudizio lo fanno, anche il medico lo fa; ma il giudice c’è pur sempre dentro, e ha una competenza di tipo giuridico, mentre lo spettatore è in un’altra posizione. Anche migliorandoli, quei programmi potrebbero, tutt’al più, offrire allo spettatore una ricostruzione delle interpretazioni storiche rispetto agli elementi disponibili, non sostituire lo spettatore al giudice. Spettacolarizzare non è educare, è esattamente il contrario”.

Note

[1] La conversazione si è svolta telefonicamente il 17 marzo 2021. La presente trascrizione è stata approvata dall’avv. Forza, che ringrazio per la cortesia e la disponibilità.

[2] “Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche” https://www.brocardi.it/codice-di-procedura-penale/libro-terzo/titolo-ii/capo-vi/art220.html