Lockdown alla gesuita

Francesco D’Alpa    Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 Fra i mezzi di controllo della attuale pandemia da virus COVID-19 primeggia la limitazione della mobilità, in particolare dei giovani e nelle ore serali e notturne, per motivi sanitari, quanto in passato, con raccomandazioni analoghe, ma di tipo religioso, molti predicatori intendevano proteggere la salute delle anime. Mi riferisco, in particolare, all’uso o abuso delle “veglie”, che si voleva contrastare con una sorta di “distanziamento sociale”.

Ne cito un esempio. Nel 1861 il gesuita Secondo Franco (1817-1893) redige un trattatello [1] sulle veglie e gli amori “come si praticano il più delle volte nella campagna”, il cui fine ultimo è ammonire la gioventù “che ha da accasarsi” a non vivere “al par dei bruti” [p. 164], ed invece rispettare la morale cristiana; testo interessante perché, a suo modo, sintetizza una salda dottrina cristiana, in battagliero contrasto con costumi ritenuti nefasti per la società e per la salvezza delle anime.

Due tipologie di veglie

Nel contesto analizzato da Secondo Franco, vengono ben definite due tipologie di veglie, praticate nelle campagne: quelle cristianamente accettabili, ovvero le

riunioni modeste di qualche parente, o vicino, od amico che si raccolgono insieme qualche ora, o veramente per lavorare, od anche nei dì festivi per riposare alquanto e ricrearsi onestamente e con moderazione […] allontanato il pericolo delle genialità, dei discorsi lubrici e che passino fra persone tra le quali non vi sia alcun pericolo [p. 6],

e quelle da condannare

in cui interviene la gioventù, e v’interviene per trattenersi con gioventù di sesso diverso, sia poi sotto pretesto di lavorare, sia poi sotto pretesto di passar il tempo [pp. 6-7].

 Queste ultime,

veglie, o conversazioni, o trebbi, o filò che si dicano, sono pericolosi dappertutto e sorgente di gravissimi danni temporali e spirituali: ma nella campagna e fra i monti sono a mille doppi più funesti, e pericolosi [p. 3].

In questi anni, quanto praticato nelle campagne differisce sostanzialmente dalle abitudini delle città:

Quel che si usa nelle città sotto il nome di conversazioni, si fa nelle campagne sotto nome di veglie, di filò o di trebbi: ed è l’intervenire che si fa nelle lunghe sere d’inverno in una casa, od in una cascina, o presso ad un focolare molte persone di vario sesso, e sotto pretesto di filare o far qualche altro lavoro di mano, intrattenersi insieme a lieta conversazione. Il pretesto che si allega per formar tali riunioni è molteplice: l’inclemenza della stagione che richiede luoghi non disagiati ad abitare: il risparmio che così si fa del fuoco e dell’olio che si dovrebbe in ogni caso accendere e consumare, la necessità d’ingannare quelle sere d’inverno che sono sì lunghe, e finalmente il diletto che si ritrae da un poco di onesta conversazione. Con questi pretesti s’inorpella quell’usanza che le passioni hanno introdotto da principio, e cui non vogliono più dismettere, perché trovano troppo gradita e favorevole ai loro intenti: usanza però che è fonte di mali innumerevoli privati e pubblici, temporali non meno che spirituali [pp. 5-6].

Or chi non sa che la notte è sempre stata la madre di tuti i disordini? È allora che si formano le amicizie tra i compagni perversi, e che formate poi si alimentano: è allora che si ricevono e si fanno gl’inviti per ire a perdere il tempo, ed il danaro nelle taverne. È allora che s’incomincia il vizio del giuoco, e delle ubriachezze: è allora che s’avviano perfino, e che si mantengono le ree tresche. Gioventù che si avvezza ad uscir di notte, o ha perduto già il buon costume, o è in via di perderlo prestamente. Eppure nei paesi dove sono in uso le veglie, in sulla sera non troverete un giovane che non sia fuori di casa fino a notte ben avanzata. Peggio ancora, se avvenisse quello, che pur in certi paesi non è raro che sieno le giovani ad andar in volta, e si rechino colà dove la veglia è più rumorosa. […] Or questo quanto conferisca al mantenimento del santo pudore e dell’innocenza, non sarà mestieri che io lo spieghi, poiché ognuno che abbia fior di senno, lo potrà intendere da se stesso [pp. 7-8].

Le ragioni sociali

Quali sono, agli occhi del predicatore, le ragioni sociali che inducono nelle campagne a queste insane veglie? Fondamentale è

l’ozio in cui si logorano le lunghe sere d’inverno: [un tempo gli uomini attendevano a] qualche lavoro di mano, od in fare qualche attrezzo che poi servisse a suo tempo nelle campagne, e le madri si intrattenevano colle figliuole a cucire, a filare, od a qualche opera propria del sesso donnesco, [ma soprattutto] si leggeva qualche tratto della vita di un santo, o qualche altro libro spirituale […] e finalmente prima di cena si recitava in comune il Rosario della Madonna con le consuete preghiere [p. 8].

L’ozio è dunque il primo pericolo per le famiglie, giacché non si può

intendere alle dimestiche faccende intante che si ride, si ciancia, si novella» [p. 9]. [Infatti in campagna] la sera quanto è lunga, se ne va in frascherie, ed inezie, e perditempo [p. 10]. [Mentre in città si leggono i giornali e si discute sulle vicende quotidiane del mondo], argomenti di favellare, se non sempre di grande utilità, almeno di non grande pericolo, [nelle campagne] non vi ha pure da appigliarsi a questi argomenti. Il discorso verte tutto sopra frivolezze da nulla. Si parla degli amorazzi dell’uno e dell’altro, dei matrimoni che sono conchiusi, o da conchiudere. Non si rattiene la gioventù da allusioni, da equivoci, da motti che offendono la modestia cristiana. Quelli che sentono que’ discorsi vi applaudono per rispetto umano, tuttoché ne sentano rimorso, i genitori stessi non osano per non parer troppo rigorosi mettervi riparo, e colla loro dissimulazione accrescono lo scandalo [p. 11].

Le ragioni passionali

Queste considerazioni sono premessa al tema fondamentale del volumetto:

Le veglie sono il fomite della passione dell’amore […] il più terribile effetto che germini dalle veglie [p. 34].

Per tale motivo, dunque, ad entrambi i sessi non deve essere

consentita la libertà del conversare promiscuamente, perché quella libertà è incentivo di mille peccati, ne’ quali anime senza numero fanno naufragio [in quanto] noi siamo della natura, per ragione della colpa originale, ed abbiamo vivo purtroppo in noi il fuoco della concupiscenza [p. 23].

Le veglie sono soprattutto fonte di incontinenza. Infatti:

Qual è lo scopo per cui si raccolgono insieme tante persone in su la sera, qual è il motivo segreto che le raduna? […] Non è il desiderio di ingannare il tempo, come suol dirsi; non è il sollievo di un poco di conversazione […]. A quello potrebbe bastar la compagnia di qualche vicino, di qualche vicina, di persone anche più provette di età, anche del medesimo sesso. Ora al contrario le veglie non sono amabili, e non sono amate, se non vi interviene di preferenza la gioventù di sesso diverso, se tra la gioventù non si stabilisce la conversazione. E ciò è sì vero che in molti paesi sono i giovani i quali vanno in giro tutta la sera correndo dall’una all’altra casa; ed altrove sono le fanciulle che ardite escon di notte, e si recano dove è aperto il trebbio. Si fa dunque evidente che il desiderio di conversare promiscuamente è il motivo segreto ma verissimo che ha inventato le veglie, e le tiene in piedi. Ora qual cosa può essere più pericolosa alla gioventù, e più efficace a trascinare le anime nel baratro dell’incontinenza che il conversare scambievole per tante ore? [pp. 18-19].

Le giuste regole

Ma che idea d’amore propone il gesuita Franco? Per “far l’amore” lecitamente si impone di seguire sempre precise regole. Il primo passo spetta alla componente maschile:

Perché un giovane possa visitare una fanciulla, e questa riceverne le visite si richiede in primo luogo che tanto l’uno quanto l’altra abbiano intenzione di collocarsi in matrimonio. Chi non ha alcuna idea di accasarsi, e ne ha solo un’idea vaga, o molto più vi ha un’idea contraria, è cosa chiara che non può far all’amore. In secondo luogo coll’intenzione di accasarsi si richiede che vi sia la possibilità. […] Terzo è necessario che questa possibilità non sia rimota, non sia troppo lontana [p. 35].

Al fine di non cadere in “occasione prossima di peccato”, il pretendente deve innanzitutto consigliarsi con i propri genitori, poi rendere “consapevoli” i genitori della giovane, quindi farle “qualche visita in presenza loro per conoscerla più pienamente e per esserne conosciuto” [p. 36]. Quindi deve decidere: o stringere subito matrimonio, oppure “pronamente sciogliere se stesso e lei da ogni conversazione” [p. 37].

I limiti

Ma “è sempre peccato il far l’amore” senza mirare ad un matrimonio, financo con soli sguardi compiaciuti, con innocenti vicinanze? Qui il predicatore deve affrontare alcune difficoltà:

è sempre peccato il far l’amore, sicché niuna ragione possa coonestarlo, oppure può diventare lecito in qualche circostanza? Da una parte sembra pure che una persona prima di collocarsi in matrimonio abbia diritto a conoscere con qualche visita il compagno o la compagna che ha da scegliersi per tutta la vita: dall’altra parte, siccome il trattar scambievole è di quel pericolo che abbiamo detto nell’altro capo, non si intende facilmente quel che si possa permettere o tollerare [p. 34].

Come può dunque avvenire la conoscenza fra due giovani, seguendo le sole norme consentite? Non certo nelle veglie, nelle quali “non si opera veruna cautela e non si serba alcun riguardo” [p. 37], e nel corso delle quali

mal si difende un giovane, mal una fanciulla da certe tentazioni anche quando vengono da un soggetto indifferente: che cosa sarà poi se quell’oggetto sia gradevole, e quanto non diventerà più arrischiato il cimento? [p. 38].

E se la semplice vista di un “oggetto gradevole” è così dannosa, che dire del semplice ragionare fra giovani?

Non accade illudersi colla speranza che si possa in quei colloqui parlar di cose indifferenti. Ciò potrà aver luogo una qualche volta in sul principio, o perché la passione non ha ancora profonda radice, o perché si teme di poter ancor ricevere lo sfratto: ma del resto non può la riserbatezza ed il contegno durare a lungo. Que’ che amoreggiano nelle veglie non cercano altro che il loro contentamento, e quindi non sanno privarsene dovunque l’abbiamo a ripescare [p. 40].

Andrebbe ancor peggio allorché  agli impulsi “appropriati” si aggiungesse l’imitazione dei comportamenti dei più dissoluti fra i compagni di veglia, con le più nefaste conseguenze:

gli scandali che vediamo in certo paesi, di tresche continuate i mesi e gli anni […] la sfacciataggine di que’ giovani, e l’impudenza di quelle fanciulle che non hanno vergogna di farsi vedere accompagnati insieme e soli al passeggio, al ballo, alla taverna, al caffè, al trebbio di giorno e di notte con tanta libertà che più non farebbero se fossero maritati […] quella sfrenatezza per cui gli uni e le altre guardano, cianciano, ghignano, amoreggiano fin sulla porta della chiesa, e nel tempo della messa e delle funzioni fin sotto gli occhi di Gesù sacramentato. Di qua quelle cadute vituperose per cui diventano madri prima che spose con alto scandalo di tutto un paese, e di tutte le terre circonvicine […] l’indebolimento universale del sentimento della cristianità, della pietà, della religione di Gesù Cristo. Se le veglie non avessero appressato la legna, non si sarebbe mai acceso un incendio sì vasto [pp. 42-43].

Trascinato nella dissolutezza, il giovane perde così “il sentimento della cristiana onestà”, non dà più retta ai genitori e la sera “prende il cappello, esce di casa e torna quando più gli fa comodo”, “si aggreggia coi suoi compagni, e si trattiene a lungo con essi”: ed il più delle volte

tutto è raccontar le proprie valentie, le proprie iniquità e menarne vanto, e cercar d’apparire tanto più grande, quanto è stato più temerario ad offendere Dio, più sozzo a convolgersi nelle laidezze, più audace a sfidar i fulmini della divina giustizia [pp. 42-43]. [Una volta intrapresa, la caduta non ha freni:] I giovani dediti agli amori non si contentano neppur più di quelle riunioni alle quali un ultimo riguardo dei genitori impedisce eccessi più gravi: mirano ad aver le vittime delle loro passioni in balia totale. Quindi impiantano nel Carnovale balli e tripudi per le osterie ed in su le piazze il più che possono, e si danno attorno a condurvi le fanciulle non solo della terra ma pur di luoghi convicini. Ora questi ritrovi sono dappertutto anticamere dell’inferno, ma nelle campagne sono un infermo anticipato [p. 55].

Ed accadono perfino cose più spiacevoli:

un giovane che ha passato i primi anni sulle veglie e coi rompicolli, non è da credere che guarderà gran tempo un amor fedele alla sua compagna. Nelle veglie ha fatto molte amicizie, ed ha diviso il suo cuore qua e là: incontrando poi dopo quelle persone, quagli affetti si risvegliano [p. 48].

Il danno per le giovani

Fra tanti ammonimenti, pesano soprattutto quelli per le giovani:

una fanciulla che frequenta il pubblico è come una mercanzia che si mette in mostra per trovar compratori: ma una fanciulla che non solo frequenza il pubblico, ma lo frequenta lungamente, non sarebbe per ventura una mercanzia già venduta? [p. 21].

Dunque occorre fare attenzione soprattutto al vestire:

Le feste non sono per loro giorni da santificare, ma giorni da mettere in mostra que’ quattro cenci che per mille vie si sono procurate, e da accogliere le visite che in quel dì sono più frequenti [p. 46]. [E] riguardo speciale debbono averlo quelle madri che non solo non vogliono intendere il pericolo del conversare, ma dicono scioccamente: che male può fare la mia figliola dalla finestra, o stando all’uscio alla presenza di tante persone? Ecco adunque il male che può fare: può fare peccati mortali dentro di sè col pensiero, può fare compiacenze gravi, può dare consentimenti gravi, può eccitare i giovani a pravi affetti, può suscitare il loro desiderii perversi, può riempire di peccati l’anima propria e l’altrui [p. 31].

Le giovani potrebbero comunque opporre una difficoltà: “se non si fa un poco all’amore, mai non troveranno da maritarsi” [p. 74]. Si può dunque concedere a qualche giovane di frequentarla più di qualche volta (ovviamente sotto l’attento controllo dei genitori?). No di certo: “perocché sino a tanto che un giovane frequenta una casa e vi amoreggia, nessun altro vi si accosta”, e qualora il giovane infine decida di ritirarsi, queste giovani “vedendosi avanzate negli anni, e dileguarsi i corteggiatori, si gittano alla disperata con quello che finalmente si accontenta di prenderle” [p. 76], con infauste conseguenze, perché

è sempre qualche giovane più leggero che si risolve in fine a sposare una fanciulla di questa fatta, ed allora poi le misere scontano con ogni rigore tutto il male che hanno fatto nella gioventù. Perocché un marito tale è raro che non abbia molti altri vizi di compagnie, di taverne, di bestemmie, di pratiche ree, e somiglianti. Quindi invece di trattarla da compagna, dopo pochi mesi la tratta da schiava [p. 76].

Ed allora:

io domando alle giovani: […] Vi sembra che per correre tanti rischi vaglia la pena di mettersi in tante smanie? Non si potrebbe conservare almeno un poco di calma, ed aspettare che Iddio con voce molto chiara e molto solenne vi chiamasse? Oh per verità non mostrano solo il loro poco timore di Dio quelle fanciulle che van si pazze dietro agli amori, ma pure la scarsezza del loro giudizio nel prevedere quello a che si espongono. Eppure vi è un altro danno niente minore che esse incontrano, ed è la perdita che fanno del più bel tesoro che possa avere una fanciulla, cioè la S. Verginità [p. 134].

Quali rimedi?

Poiché sembra quasi impossibile eliminare le veglie, quanto meno occorrerebbe arginare il fiume minaccioso, e renderlo meno che un torrentello, che tuttavia può ancora allagare “ogni cosa” [p. 80]. Ed allora Franco dichiara:

io parlerò in questo capo peculiarmente alla gioventù, e prima ai giovani, poi alle figliuole, sforzandomi di mostrar loro che finalmente il vero loro bene domanda che se ne astengano, ed insinuando loro la condotta che hanno da tenere in casi di accasamento. E prima di tutto si persuadano che il loro vero bene è quello che richiede che fuggano le veglie e gli amori [p. 121].

Debbono concorrere a questa opera di difesa innanzitutto sacerdoti e parroci “colle prediche, colle istruzioni, coi catechismi, colle missioni, cogli esercizi, e soprattutto nel tribunale della penitenza”, ammonendo i giovani “in omni patientia et doctrina” [p. 79]; quindi le autorità civili, i genitori, e la stessa gioventù che ha “primo da intendere quale sia il vero suo bene e poi da sforzarsi di procacciarlo” [p. 80].

Il modello di comportamento suggerito è quello di S. Alfonso de’ Liguori, il quale “anche quando l’amore ha per iscopo un onesto matrimonio non vuole che procedano più d’una o due visite” [p. 82].

In quanto all’autorità civile, essa deve “concorrere a cessare veglie ed amori coll’eliminare le occasioni più immediate, quali sono i pubblici balli, e le feste più clamorose e profane” [p. 95]. Ciò purtroppo sembra applicabile più nelle città che nelle campagne, dove l’aggregazione fra i vari nuclei familiari, soprattutto nei periodi e nelle ore di riposo forzato dal lavoro, è quasi la norma, ed i vincoli morali sono più labili. E dunque la norma auspicata viene esplicitata con maggiore dettaglio:

Direte non essere possibile in certi luoghi il ritrarsi da soli in casa, soprattutto nelle sere d’inverno: perché sia per risparmio di fuoco, sia per risparmio di olio si usa passare le veglie nelle stalle di molti insieme. Ebbene, vi rispondo, sia pur anche questo: ma non è necessario perciò d’impiantar una veglia di amoreggiamenti e di scandali. Si tengano in primo luogo gli uomini separati dalle donne, come si faceva un tempo e come può agevolmente farsi in quelle stalle amplissime dove si usano certi convegni: e poi si dia a que’ crocchi distinti un avviamento che sia del tutto alieno da quel che praticasi nelle veglie. Le persone più attempate che ivi si trovano, non debbono tollerare che si mettano discorsi o pericolosi o peccaminosi, che le canzoni che si cantano sieno quelle nenie sempiterne di amore che purtroppo si odono. [pp. 115-116].

In tempi di polemica antiunitaria e di crescente opposizione clericale alla modernizzazione, non ci si poteva aspettare alcun compromesso con il liberalizzarsi dei costumi.

Note

[1] Il volume, dal titolo Delle veglie e degli amoreggiamenti nelle campagne, è stato riedito più volte, fino al 1893. Qui mi avvalgo della terza edizione del 1870, stampata come le altre dalla Tipografia dell’Immacolata Concezione,  Modena.