Manfred Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, ISBN 978-88-6380-711-0, Corbaccio, Milano, 2013, pp. 342, € 18,90 (disponibile anche per e-book).

Recensione di Maria Turchetto   Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Devo subito dire che da un autore tanto attento ai processi mentali – da oltre vent’anni si occupa di “cambiamenti cerebrali indotti dall’apprendimento” come direttore del Centro per le Neuroscienze dell’Università di Ulm – mi sarei aspettata più ordine e soprattutto maggiore gerarchia nell’argomentazione. L’indubbio interesse che riveste l’esposizione – molto chiara – della fisiologia dei processi di apprendimento, della loro complessità e dell’impatto che su di essi esercitano le tecnologie rischia infatti di perdersi in una condanna senza appello di ogni tipo di supporto digitale. Computer, lavagne interattive, videogiochi, calcolatrici elettroniche, navigatori satellitari, smartphone, e-book sono comunque, per Spitzer, “macchine per ostacolare l’apprendimento”, che “ci sottraggono lavoro mentale”, rendendoci “dementi” in senso stretto, cioè provocando un declino delle nostre competenze cognitive. Un allarme così generalizzato rischia, a mio avviso, di risultare inefficace.

Dal momento che Spitzer tiene molto al concetto di “profondità” – ci tornerò sopra – proporrei in prima istanza di distinguere alcuni allarmi che mi sembrano abbastanza “superficiali” da altri che considero più significativi e da altri ancora davvero “profondi”, a proposito dei quali l’autore, grazie alle sue specifiche competenze, ha davvero qualcosa da dirci ben al di là del senso comune.

Il senso comune, in effetti, è sufficiente a farci capire senza particolari prove sperimentali che molte ore passate davanti al televisore o impegnate nei videogiochi rimbecilliscono – rendono “dementi” – bambini, ragazzi, adulti e anziani. E con il semplice buon senso possiamo senz’altro capire che i soggetti più a rischio in questo senso sono i bambini delle classi povere, parcheggiati e sedati in questo modo in mancanza di alternative. Facilmente intuibile anche che le eccessive permanenze davanti agli schermi provochino sovrappeso (Spitzer è giustamente molto preoccupato dall’aumento del cosiddetto “diabete senile” in età pediatrica, cfr. cap. 6) e disturbi del sonno (importantissimo, come l’autore spiega nel cap. 12, nei meccanismi di apprendimento).

Più interessante è l’esame del modo in cui i media digitali vengono proposti nelle scuole: pochi, oltre agli addetti ai lavori, sono attenti a questo problema. L’introduzione dei nuovi strumenti tecnologici per la didattica è ampiamente influenzata – come si può ben immaginare – dagli interessi delle imprese produttrici. La spinta all’introduzione delle tecnologie digitali nelle scuole è certamente molto forte e molto forzata dagli interessi commerciali in gioco e comporta il dirottamento di risorse destinate all’istruzione che potrebbero essere più utilmente impiegate. Ed è certamente vero che i dati relativi agli effetti di tali tecnologie sull’apprendimento e sul rendimento scolastico sono per lo più poco affidabili perché provengono dall’industria informatica: non esistono quasi studi indipendenti e le voci critiche vengono spesso boicottate. Questo induce a una scarsa prudenza nell’uso dei nuovi strumenti, soprattutto nelle scuole per l’infanzia e nelle scuole primarie dove, secondo l’autore, rappresentano “un’istigazione alla dipendenza” e peggiorano l’apprendimento (cap. 3).

L’analisi dei meccanismi dell’apprendimento, con cui Spitzer argomenta quest’ultima affermazione, rappresenta la parte di gran lunga più interessante del libro. Il cap. 2 spiega come l’apprendimento cambia il cervello, nelle sue componenti minuscole – i neuroni e le sinapsi – come nell’organizzazione delle aree cerebrali. Le aree stimolate dall’apprendimento crescono (in volume) perché i neuroni moltiplicano i punti di contatto e le ramificazioni; nell’ippocampo si formano nuove cellule nervose che per sopravvivere devono collegarsi alle strutture cerebrali esistenti. Per realizzarsi in modo duraturo, questi processi richiedono un impegno complesso che coinvolga più aree percettive e motorie, “uno sforzo mentale e fisico e un’interazione attiva con l’ambiente”. È appunto la quantità di aree, neuroni, sinapsi coinvolti che determina la profondità dell’elaborazione e, di conseguenza, l’efficacia dell’apprendimento e della memorizzazione. È il processo di “apprendimento permanente” a preservarci dalla “demenza”: “il cervello si modifica in base all’utilizzo. Se […] non viene utilizzato, l’hardware neuronale viene smantellato”. E i fondamenti di un efficace utilizzo del cervello “risiedono in una buona istruzione nell’infanzia e nell’adolescenza”.

La preoccupazione principale dell’autore riguarda dunque il fatto che l’utilizzo di sussidi digitali finisca col proporre ai bambini e ai ragazzi compiti cognitivi troppo semplici: trascinare con le dita una parola su un touchscreen risulta “superficiale” rispetto a ricopiarla, la pratica del copia-e-incolla è meno “profonda” rispetto a leggere e scrivere (cap. 3), ed è importante imparare a contare con le dita, associando cioè una competenza fortemente astratta a un compito motorio. Così come è importante la compresenza di stimoli emotivi: far ascoltare in età infantile – letteralmente, “non parlante” – un CD in cinese non avrà alcun effetto sull’apprendimento di questa lingua, mentre la presenza di un maestro che interagisce anche a livello espressivo e affettivo risulterà efficace. Il lavoro in gruppo è fondamentale per l’apprendimento, ma i contatti e i confronti reali risultano migliori rispetto a quelli mediati dai social.

Resta un dubbio sul fatto che la tecnologia digitale sottragga – sempre e comunque – stimoli e competenze, senza nulla aggiungere o, quanto meno, sostituire. In questo senso, sul giudizio totalmente negativo che ne dà Spitzer mi sento di esprimere qualche riserva, mentre sulla prudenza che suggerisce riguardo al suo uso nell’infanzia non posso che essere d’accordo.