I conventi dell’orrore: le Memorie di Enrichetta Caracciolo

Giuseppe Spanu  

Le descrizioni crude contenute nel romanzo Ginevra o l’orfana della Nunziata potrebbero sembrare frutto della fantasia del suo autore Antonio Ranieri (1806-1888). Tuttavia, sebbene la trama e alcune vicende non siano reali ma inventate, le descrizioni delle condizioni di vita negli orfanotrofi e nei conventi sono realistiche, in quanto Ranieri si documentò scrupolosamente visitando i luoghi dove avrebbe ambientato le vicende di Ginevra. Una conferma che la vita nei monasteri e nelle istituzioni gestite dal clero a Napoli non fosse idilliaca, come denunciava Ranieri, proviene dalle memorie di una ex monaca di clausura, Enrichetta Caracciolo (1821-1901), che nel 1864 le pubblicò col titolo di Misteri del chiostro napoletano.

Eccone alcuni estratti per quanto riguarda la carità cristiana e l’amore delle monache verso i malati:

È usanza nel monastero che le morte, dopo vestite, si pongano in terra: reliquia pur questa delle basiliane tradizioni. Quattro converse sono destinate a quest’ufficio. Una di esse, demonio sotto le forme di monaca, non voleva una notte d’estate interrompere il riposo del proprio letto per apparecchiare l’estinta compagna. L’ammonii vivamente e s’alzò; ma, afferrato il cadavere per una gamba, e furiosamente trascinatolo in mezzo alla stanza, disse crucciata: “Per la Madonna, non sapevate far così?”

[…] Questa medesima conversa menava la domenica una povera cieca alla messa. Infastidita di tale ufficio, domandò di esserne esonerata; ma, non essendo stata esaudita, un giorno precipitò la vecchia cieca dall’alto delle scale. L’infelice per quella caduta morì. Una volta percosse sulla faccia un’inferma perché spesso domandava di essere voltata di fianco nel letto[1].

[…] Una signora, da più anni ritirata in un convento, fu colpita da apoplessia. Non rimessa interamente, un giorno stramazzò a terra. Al rumore della caduta, accorsa una giovine conversa, e trovatala sola, tutta intrisa di sangue, la sollevò da terra e la ripose sul letto. Per quest’atto doveroso fu sgridata dalla superiora. “Doveva dunque lasciarla morire in terra?” domandò la conversa. “Dovevi chiamare un’altra signora ritirata; quelle della stessa classe se la intendono meglio tra di loro”[2].

Nonostante il settimo comandamento, le monache non si astenevano nemmeno dal furto, come ricorda la Caracciolo:

Un’educanda dimenticò di levare la chiave dal comò: le involarono il suo peculio di cinque piastre napoletane. Nel servizio da caffè non si trovò un cucchiarino d’argento. Nel coro stesso fu rubata una corona con medaglia. Una conversa si misurò una tonaca nuova, e se ne andò a pigliare il denaro per pagare il sarto: al ritorno non trovò più la tonaca sulla sedia ove l’avea posta. A me fu involata una piletta d’argento per l’acqua santa, attaccata presso all’origliere del letto [3].

La vita in monastero poi non garantiva neanche la salute mentale.

La privazione della libertà, l’uniformità del vivere, la monotonia delle impressioni, la frivolezza della giornaliera conversazione e, nella maggior parte delle monache che si trovano dalla fanciullezza nel chiostro, la scarsissima educazione ricevuta, fanno sì che la terza parte di loro o siano matte del tutto, o fissate almeno su di qualche cosa … Una monaca non poteva o non voleva toccar mai la carta; il contatto con quella materia le avrebbe procurato le convulsioni. La conversa non si dipartiva giammai dal suo fianco. Quando la padrona recitava l’uffizio, quella le voltava le pagine; al ricevere qualche lettera, doveva dissuggellare e tener spiegato il foglio dinanzi alla monaca, finché questa ne avesse terminata la lettura. Per essere quindi padrona dei suoi segreti, era costretta di tenere al suo servizio delle converse, che non avessero appreso l’alfabeto [4].

[…] Ho conosciuto un’altra che, quando stavasi malata, puntava degli spilli intorno alle lenzuola del letto: poi, rannicchiatasi dove si tengono i guanciali, rimaneva ferma in quella posizione, acciocché (diceva) non si guastasse la maravigliosa simmetria del letto. Ve n’era un’altra che faceva bambolini di cenci, e dondolandoli al seno diceva che erano i suoi figli [5].

E per quanto riguardava i sacerdoti:

La frenetica passione delle monache pei preti e pei monaci supera ogni credere [6].

Un personaggio altamente collocato, fece un mattino chiamare la badessa del monastero, e consegnolle una lettera, da lui stesso trovata per la via. Quel foglio, mandato da una delle spose di Cristo al suo prete, era stato smarrito dalla domestica. Le espressioni materiali che in esso leggevansi avevano scandalizzato la coscienza del gentiluomo. Una cortigiana avrebbe fatto uso di più modeste frasi. Un giovedì santo, a notte avanzata, trovandomi nel coro, vidi svolazzare, girando per aria, un foglio, che andò a cadere ai piedi del santo sepolcro: era il biglietto che un’educanda del luogo indirizzava al chierico.

[…] Essendo inferma una monaca, il prete la confessò nella cella. Indi a non molto l’ammalata si trovò in uno stato interessante, ragion per cui il medico, dichiarata idropica, la fece uscire dal monastero [7].

[…] Un’altra fu assalita dal tifo; durante il delirio, altro non fece che inviar baci al confessore, assiso accanto alletto. Egli, coperto di rossore, per la presenza di persone estranee, portava innanzi agli occhi della sua inferma un Crocifisso, lamentevolmente esclamando: “Poveretta, bacia il suo sposo!” [8].

Come si evince da questi estratti del diario di Enrichetta Caracciolo, Ranieri non inventò nulla sui vizi delle monache e dei preti e sugli orrori che venivano perpetrati tra le mura dei conventi. Va riconosciuto il coraggio di Enrichetta Caracciolo che denunciò coraggiosamente la condotta di vita corrotta nei monasteri e i loro abomini, che le costò la scomunica di Pio IX ma che ebbe il merito di sollevare il velo sull’immoralità del clero cattolico dell’epoca.

NOTE

[1] Enrichetta Caracciolo, Misteri del chiostro napoletano, Melville Edizioni, Vignate (MI) 2020, p. 117.

[2] Ivi, p. 118.

[3] Ivi, p. 146.

[4] Ivi, p. 127.

[5] Ivi, p. 128.

[6] Ivi, p. 85.

[7] Ivi, p. 87.

[8] Ivi, p. 88.