Come decifrare lo “scuolese”. Conversazione con Chiara Foà e Matteo Saudino

Stefano Bigliardi

Chiara Foà da vent’anni insegna materie letterarie nelle scuole secondarie di primo e secondo grado. Storica di formazione, ha scritto Gli ebrei e i matrimoni misti. L’esogamia nella comunità torinese (1866-1898) (Silvio Zamorani Editore, 2001). Matteo Saudino è da vent’anni professore di filosofia e storia nei licei, ed è conosciuto al grande pubblico per la sua attività divulgativa sul canale YouTube BarbaSophia; ha pubblicato la raccolta di poesie Fragili mutanti (Eris, 2012) e La filosofia non è una barba (Vallardi, 2020). Insieme hanno pubblicato il manuale Crescere cittadini (Paravia, 2007) e Il prof fannullone (vedere recensione). La loro ultima fatica è il pamphlet Cambiamo la scuola. Per un’istruzione a forma di persona (Eris, 2021).

Ho raggiunto Chiara e Matteo per una conversazione in videochiamata sulla scuola italiana [1]. La situazione della scuola, notoriamente non ottimale, per non dire disfunzionale, risente sia dei cambiamenti sociali sia delle riforme che negli ultimi trent’anni l’hanno profondamente cambiata. Per comprendere a fondo queste ultime, e rendersi conto della discrepanza tra dichiarazioni “riformistiche” e realtà, occorre dedicarsi a un paziente esercizio di decrittazione dello “scuolese”. Occorre, in altre parole, non solo impadronirsi di espressioni tecniche e di sigle, ma anche e soprattutto decifrare una serie di “parole d’ordine” e slogan che suonano bene, tanto da far passare dalla parte del torto chiunque osi sollevare obiezioni al riguardo, salvo nascondere realtà che sono l’esatto opposto di quanto evocano.

Stefano Bigliardi (SB): Molte riforme scolastiche si sono succedute negli anni: di destra e di sinistra. Hanno qualcosa in comune?

Matteo Saudino (MS): Le riforme cominciano con quella di Berlinguer a fine anni Novanta. L’idea di fondo che le anima tutte è quella di risparmiare. Appellandosi all’integrazione nell’Unione Europea, alla riduzione del debito pubblico, al rispetto dei parametri di Maastricht, al rispetto dei vincoli di bilancio dello Stato, la scuola è stata sistematicamente descritta come troppo costosa. E dunque, riforma dopo riforma, l’idea è sempre stata quella di ridurre le spese, cosa che poi è stata messa in atto attraverso le manovre finanziarie. La contrazione delle spese per la scuola, vero minimo comune denominatore di tutte le manovre, è stata accompagnata da un “mantra”: modernizzare la scuola per renderla più efficace. Tutte le riforme sono state a costo zero, o al risparmio. Da Berlinguer a Moratti, da Fioroni (che non ha promosso una vera e propria riforma ma degli aggiustamenti) a Gelmini (la più pesante, avendo tagliato 100.000 cattedre e eliminato degli insegnamenti) a Faraone (in realtà Renzi). La scuola, insomma, come albero da potare per farlo crescere meglio … Ma in realtà, in questo processo l’albero è stato ridotto e forse sono state tagliate anche delle radici. Un secondo elemento comune è la tecnologia. Intendiamoci, la tecnologia è fondamentale per innovare la scuola, ma l’approccio dei governi è stato improntato al feticismo della tecnologia, cioè l’idea fideistica, la cui popolarità è ben comprensibile nel contesto di un’Italia poco scientifica e poco tecnologica, secondo cui gli oggetti tecnologici in sé e per sé sono apportatori di un qualche tipo di “salvezza”. Si è dimenticato che la tecnologia funziona se c’è qualcuno che sa farla funzionare, e che è un mezzo, non un fine.

Chiara Foà (CF): Si sostiene che immettendo tecnologia nella scuola si promuove l’integrazione. Questa parola, “integrazione”, è sulla bocca di tutti: dai colleghi ai ministri passando per i dirigenti. In realtà la tecnologia mette solo in luce, con più evidenza, le differenze. Basti pensare all’assenza del WiFi. Oppure si sostiene che la scuola promuove sport, teatro e cinema. Tutte ottime cose, in linea teorica, ma alla fine risultano accessibili solo agli studenti che se le possono permettere. Io, che insegno nella secondaria di primo grado, presso la mia scuola ho un servizio di prestito di libri. Solo che i libri non ci sono, sono pochissimi. Le fotocopie sono razionate perché la scuola non ha il toner. Insomma, sulla carta si attivano una serie di misure, ma poi dipendono dall’iniziativa e dalla disponibilità delle singole scuole, che a loro volta dipendono, quanto al loro successo, dal contesto sociale e dalla disponibilità finanziaria dei genitori. Nel prof fannullone descriviamo l’esempio di due scuole che promuovono una raccolta fondi autonoma attraverso dei mercatini. Entrambe hanno successo: solo che la scuola situata in una zona povera raccoglie una somma irrisoria. Se non viene erogato da parte delle famiglie quello che viene chiamato “contributo volontario” i soldi sono veramente pochi. In altre parole, se tutto (o molto) dipende dal finanziamento privato, si determina un dislivello.

(SB): Mi sembra di capire che, per farsi un’idea precisa di che cosa è veramente la scuola, occorra continuamente decodificare una specie di orwelliana “neolingua” ministeriale, scoprendo, per ciascun termine o espressione, il suo vero significato, il modo in cui è calato nella realtà, al di là del suo uso ideologico e retorico. Che cosa mi dite, allora, di scuola delle competenze?

(CF): È proprio così che vengono formulate le riforme. In quella di Renzi si parlava di “belle scuole”: e chi vuole scuole brutte? Quanto alla “scuola delle competenze” sarebbe la scuola del “saper fare” o, con una parola inglese, delle skills. Noi, nella nostra battaglia, sottolineiamo come il sapere, anche non immediatamente pratico, serva eccome, e come la scuola debba anzitutto fornire dei mezzi per ragionare. Nella “scuola delle competenze” si vorrebbe tutto misurabile e orientato verso il mondo lavorativo. Il punto è che non interessa veramente se l’alunno abbia acquisito delle capacità di ragionamento, ma la sua capacità di fare cose spendibili nel mondo-azienda, come produttore o come consumatore. “Competenza” è una parola molto accattivante, scelta strategicamente. Perché se ti metti contro le “competenze” sembra che tu stia promuovendo il contrario, l’incompetenza, o che tu voglia degli studenti trasognati, astratti, e disconnessi dalla realtà.

(MS): Qualcosa di simile accadeva con la scuola finanziata dai bollini della spesa. A criticare l’iniziativa ci si metteva automaticamente in cattiva luce: come se uno non volesse vedere la scuola guadagnare. Ma il problema è quello di fondo: che scuola è quella che si finanzia con i bollini della benzina o della spesa? Noi non siamo contro le competenze, ma vogliamo che vadano di pari passo con le conoscenze, e che non siano solo dettate dalla logica del mercato, come le “tre I” di berlusconiana memoria, “inglese, internet e impresa”. Perché non l’intelligenza, la solidarietà, la cooperazione, il pensiero critico, l’ecologia, l’educazione civica? Non sono forse competenze?

(SB): Avete appena enunciato ideali moderni e attuali, anche se forse minoritari, in questo periodo storico. Ma nel vostro precedente libro trovo parole di elogio per un ... vecchiume come la lezione frontale. Perché vi piace questo residuo del passato?

(MS): Ovviamente è una provocazione. La lezione frontale, da un certo punto in poi, è stata considerata il nemico numero uno, ed è diventata un capro espiatorio. Ovviamente una scuola che si basasse solo su quella sarebbe una pessima scuola. Ma una scuola che ha anche delle lezioni frontali alternate alle lezioni laboratoriali (su cui insistiamo in particolare nel nuovo libro) è una buona scuola. Laboratorio e lezione frontale non sono antitetici, sono complementari. Fermo restando che, chiaramente, l’utilizzo della lezione frontale va anche adeguato al tipo e grado di scuola, partendo dalle elementari, che per ovvie ragioni dovranno avere più laboratori, per arrivare alle superiori, dove gli studenti saranno meglio equipaggiati per concentrarsi sulle lezioni frontali.

(CF): Noi, in fondo, ci riferiamo a una lezione frontale ma anche partecipata, non quella del professore in cattedra con tutti zitti. Ma una lezione in cui vengano illustrati dei contenuti.

(MS): Quello che conta è comunque la vicinanza della lezione alla vita. Se una lezione è frontale, ma tocca temi che hanno a che fare con la vita, come l’ecologia, la migrazione, la guerra, il debito, perché no? Anzi, può farti crescere.

(SB): Parlando di cose da tenere e cose da buttare, che mi dite dei voti numerici? Servono o no, e se servono, a che cosa servono?

(CF): Anche questo argomento è sviluppato nel nuovo libro. Il voto numerico per i bambini piccoli lo troviamo pessimo e, fortunatamente, alle elementari, questa battaglia è stata vinta. Noi pensiamo che la valutazione debba assolutamente far parte dell’insegnamento, ma il voto nudo e crudo crea una tensione, una competizione, nella classe, che è controproducente. A conti fatti danneggia più che aiutare. Ci piace che venga preso in considerazione il processo di apprendimento. Una persona che perda autostima finisce con lo studiare ancora meno.

(SB): Insomma, se capisco bene: non sostenete che i numeri debbano essere scartati, si possono anche tenere, ma fate notare che non ci si può limitare a quelli e evidenziate l’importanza del feedback articolato e individuale che il docente deve prendersi il tempo di elaborare sulla base di una osservazione attenta svolta nel tempo. Voti, insomma, come cartelli stradali e non come punto di arrivo.

(MS): Certo, e per intenderci, può benissimo essere un feedback del tipo “devi rifare tutto”. Per capire la nostra posizione sui voti, ancora una volta, si tratta di distinguere i mezzi dai fini. Il voto è un mezzo e non un fine.

(SB): Sempre in tema di “parole d’ordine” un altro termine in auge è “meritocrazia”. Si parla di meritocrazia per quanto riguarda il modo in cui dovrebbe essere internamente regolata la scuola, rispetto ai docenti e alle loro prestazioni, ma si parla anche di meritocrazia rispetto, più in generale, alla società in cui poi si muoverebbero gli studenti subito dopo gli studi, e a cui pertanto dovrebbero essere allenati attraverso la scuola. Ma che cosa è davvero, nella pratica, la meritocrazia?

(MS): “Meritocrazia”, insieme a “tecnologia”, è una delle parole magiche usate per nascondere i veri problemi, in una specie di ricetta per una pozione magica: un po’ di meritocrazia e un po’ di tecnologia, ed ecco che abbiamo la democrazia. Non è così. La meritocrazia è fallace per due ragioni. La prima è che esistono i non meritevoli e la scuola non li deve buttare via. È chiaro che studenti diversi otterranno risultati diversi, ma bisogna cominciare con il dare a tutti un’opportunità. Senza tener conto del fatto che possono anche esistere dei falsi non-meritevoli, la cui situazione è dovuta a fattori di cui non hanno colpa, fattori che possono essere mitigati o eliminati. La seconda ragione per cui la meritocrazia è fallace è che, specie all’interno del corpo docente (ma il discorso si estende anche agli studenti) i meritevoli sono poi di solito gli yes-men, i docili, i manovrabili. Non i migliori, ma quelli che portano risultati numerici. Notare che non sto negando che esistano docenti non bravi. Esistono, e i presidi hanno la possibilità di intervenire. Non hanno bisogno di leggi speciali. Quello per cui “hanno le mani legate” è un luogo comune da sfatare. I presidi hanno gli strumenti per colpire i docenti inadempienti. Il problema è che non lo fanno per evitarsi dei mal di pancia.

(SB): Ho anche notato che, a livello politico, i primi a strombazzare la meritocrazia sono anche gli ultimi a metterla in pratica. Mentre la predicano come principio sociale, in casa propria poi assumono e associano figlioli e figliole … Ma passiamo a un’altra espressione di moda, o che comunque è stata usata per marcare una presunta innovazione virtuosa: parlo di “presidi-manager”. Che cosa significa?

(MS): In realtà l’idea è, in parte, abortita, perché i presidi non sono dei manager, perché la scuola rimane scuola e non azienda. Certo, alcuni si atteggiano da capi azienda, il che forse è ancora peggio, perché cercare di fare il manager in un posto che non si presta a una gestione manageriale, e per di più senza averne le doti, crea danni.

(CF): Sicuramente c’è stato un tentativo di formare i dirigenti scolastici in quella direzione, e in effetti i presidi tendono a non essere molto originali, cioè a ripetere quello che sentono nei corsi di formazione della loro associazione nazionale, in cui ricevono istruzioni ben precise su come comportarsi. Chiaramente il preside ha uno stipendio più alto, ha un ruolo diverso da quello del semplice docente, ma con punti di contatto e sovrapposizione; eppure al giorno d’oggi il preside non parla mai di pedagogia. Questo mi sembra significativo. Una cinquantina di anni fa l’approccio era diverso, i presidi si interessavano anche a questioni didattiche. Adesso si focalizzano soprattutto sulle famiglie, anche se pure in questo caso occorre demistificare le parole: “fare attenzione alle famiglie” significa in realtà trattarle come clientela da blandire. I dirigenti stanno ben attenti a non scontentare le famiglie.

(SB): Parliamo allora del ruolo dei genitori rispetto alla scuola. Com’era, com’è, e come dovrebbe essere?

(CF): In vent’anni l’impianto sociale è profondamente cambiato. Oggi, nei contesti meno privilegiati come quello in cui lavoro io, entrambi i genitori lavorano, e se non lavorano è perché sono disoccupati. Il “patto formativo” che facciamo firmare ai genitori è, molto spesso, un patto fittizio. I genitori non hanno tempo o non hanno le capacità di seguire i figli. Quando incontriamo le famiglie, o vengono a esprimere un disagio, e quindi spesso una richiesta d’aiuto rispetto a cose che accadono fuori dalla scuola, o hanno delle rimostranze, cioè vengono a rimproverare gli insegnanti, intromettendosi in questioni didattiche. Di scuola parlano tutti credendo di saperne.

(MS): La scuola ha perso valore sociale, e tutti, essendo andati a scuola, pensano di poterne parlare a ragion veduta. La verità è che ormai è solo un centro di formazione tra i tanti, rispetto alla televisione, l’azienda, i social, la chiesa, ed essendo depotenziata nella sua funzione culturale e formativa viene criticata da tutti. Le classi sociali alte la criticano come sistema inefficiente, in realtà perché più o meno consciamente temono di mescolarsi alle classi più basse. Le classi sociali basse le delegano una funzione di assistenza sociale in tutto e per tutto che la scuola non può e non deve svolgere. Le classi medie, infine, la vedono come un’interferenza, un ostacolo che si frappone tra i figli e il lavoro, le attività produttive, il commercio, gli affari. Poi ovviamente ci sono, a tutti i livelli, le eccezioni, cioè le famiglie che vedono la scuola per quello che è, e le attribuiscono il valore che ha.

(SB): Continuiamo a decifrare insieme parole opache e misteriose per chi non appartiene direttamente al mondo della scuola. Che cos’è l’INVALSI?

(CF): INVALSI sta per Istituto Nazionale per la VALutazione del SIstema educativo di istruzione e di formazione. Questo ente produce dei test di italiano e di matematica che fino a qualche tempo fa erano obbligatori per due anni delle elementari e due delle medie, e di recente lo sono diventati anche per due delle superiori. Si tratta di veri e propri quiz a risposta multipla, con cinque alternative molto simili, che possono facilmente far cadere in errore. La finalità di questi test, che sono stati annunciati una quindicina di anni fa come strumento oggettivo, non è mai stata chiarita, tanto per cominciare, ma in un primo momento sembrava fossero finalizzati a portare fondi alle scuole con i peggiori risultati. Poi si è scoperto che era esattamente il contrario. Questo ha portato a una vera e propria gara, e si sono visti dei docenti preparare gli allievi solo in funzione dei test nella speranza che la scuola ricevesse più fondi. Ma occorre anche tenere presente che questi quiz in sé e per sé sono mal congegnati, perché non misurano nulla e sono avulsi dal programma scolastico. Sono test assoluti. Avrebbero più senso se somministrati due volte, per valutare un progresso. Si noti che se una persona parte da zero, per esempio dal non sapere né leggere né scrivere, sapere “solo” leggere e scrivere dopo alcuni mesi è un grande risultato. Ma i test in questione sono ciechi a questo riguardo.

(SB): I prof fannulloni esistono? Non è forse vero che la scuola è anche rovinata dall’interno da docenti indecenti? O è solo questione di pregiudizio diffuso e atavico rispetto ai dipendenti pubblici?

(MS): Certo che esistono. Forse nel libro precedente siamo andati un po’ con i piedi di piombo, ma per esistere esistono e ne parliamo. Non saprei quantificarli, ma potrebbe esserci fino a un quinto degli insegnanti che non sono qualificati perché non sono preparati. Ma attenzione: c’è anche chi è stato ridotto in condizione disfunzionale dall’insegnamento stesso, che è un lavoro mentalmente logorante e può portare al burnout. Ma in questo caso si può essere demansionati.

(CF): Il problema c’è. Se odi il mondo e odi i bambini, sei nevrotico e nevrastenico … Chiaramente l’insegnamento elementare non fa per te! Ma è difficile uscirne. Come diceva Matteo, ci sono le commissioni mediche per i casi di genuina sofferenza psicologica, e quanto ai casi di inadempienza i presidi non hanno le mani legate tanto quanto si pensa. Ma dei test infallibili per misurare certe condizioni non ci sono, e anche i presidi possono essere inadeguati.

(SB): Ambiente tecnologizzato e social media frammentano la coscienza e indeboliscono l’attenzione. Senza volerli demonizzare, dobbiamo riconoscere questa minaccia. Quali sono le vostre strategie per contrastare questa erosione?

(CF): Introducendo il più possibile laboratori che tengano viva l’attenzione sull’allievo. Per esempio, nel mio caso, usando il teatro.

(MS): L’unico modo è far fare a loro, agli allievi. Per esempio far diventare loro i protagonisti, non solo i consumatori, dei social. Senza ovviamente dimenticare i libri di carta. Il problema della passività, per inciso, spiega anche perché in Italia, a dispetto delle tante ore di matematica e scienze, ancora ci sia molto analfabetismo scientifico, come si vede drammaticamente anche in tempi di pandemia.

(SB): E l’alternanza scuola-lavoro? È ancora in auge? Siete contrari all’idea?

(MS): Ora si parla di PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento). L’alternanza è stata ridotta rispetto ai tempi della sua introduzione, ma rimane, e questo nonostante il COVID-19, che rende tutto più difficile nel mondo del lavoro. Anche in questo caso si tratta di un’etichetta studiata per far passare dalla parte del torto chi la critica. Perché a sollevare delle obiezioni sembra che si sia contro il lavoro, si dà l’impressione di voler creare dei fannulloni. Cominciamo con il dire che la misura è stata calata dall’alto anche rispetto alle aziende, che erano impreparate. Quindi, l’iniziativa, a prescindere dal punto di vista secondo cui la si valuta, all’inizio ha sofferto dell’improvvisazione. In secondo luogo, specialmente per com’era in precedenza, era talmente onerosa in termini di orario che non solo sottraeva tempo alla didattica, ma si poneva il problema della retribuzione, visto che appunto stiamo parlando di lavoro. In ogni caso non si tratta di essere avversi al lavoro. Il periodo delle scuole è una fase essenziale della vita, in cui si impara, si assorbono nozioni. Le competenze pratiche e lavorative si possono acquisire dopo, anche attraverso degli stage veicolati dalle scuole, calibrati su progetti seri con aziende serie, con tutele e garanzie. Ci risulta che in Germania e in Svizzera il sistema funzioni, ma appunto perché non ci sono i difetti della ricetta all’italiana. Da noi era tutto improvvisato, e si prestava anche a meccanismi familistici per cui si poteva essere assunti, formalmente, da papà, zii e parentado, ovviamente accentuando le discriminazioni.

NOTE

[1] La conversazione si è svolta il 16 marzo 2021. La presente trascrizione, con adattamenti, è stata approvata da Chiara Foà e Matteo Saudino, che ringrazio per la disponibilità e gentilezza.