Dall’Ikea alla Scienza Nuova. Conversazione con il professor Maurizio Ferraris

Stefano Bigliardi     

Maurizio Ferraris è professore di Filosofia presso l’Università di Torino. Ha pubblicato più di sessanta volumi tradotti in varie lingue, l’ultimo (e, nelle sue speranze, il migliore) dei quali è Documanità. Filosofia del mondo nuovo (Laterza, 2021). Nel 2001 Ferraris ha pubblicato Una Ikea di università (Raffaello Cortina Editore), pamphlet in cui denunciava i danni arrecati dalla politica all’istruzione superiore, esponendo con arguzia ed erudizione le premesse fallaci e ingannevoli su cui erano basate le azioni “riformistiche”. Il libro è stato pubblicato nuovamente otto anni più tardi, in versione aggiornata e con il sottotitolo Alla prova dei fatti.

Ho raggiunto il professore per approfondire alcuni temi discussi nel libro e per fare il punto della situazione [1].

Stefano Bigliardi (SB): Varie riforme dell’università, o iniziative politiche volte a modificarne il funzionamento, si sono succedute negli ultimi decenni. Come ne riassumerebbe lo spirito? Hanno avuto un filo conduttore? C’è qualcosa di buono che salverebbe?

Maurizio Ferraris (MF): Il filo conduttore delle recenti riforme dell’università – non solo in Italia, ma nel mondo – è consistito nel proporre una formazione professionalizzante, muovendo dall’assunto per cui la cultura umanistica e scientifica costituisce un ornamento privo di qualunque presa nella vita reale. Non ci si rendeva conto che la vita reale ha una caratteristica, quella di cambiare molto più rapidamente delle riforme e degli insegnamenti. Come risultato, gli insegnamenti “professionalizzanti” si sono trasformati in un mare di arcaismi e di anacronismi. Abbiamo creato ingegneri e medici iperspecializzati nel momento in cui i problemi della sostenibilità e dell’ambiente richiedevano una crescente consapevolezza dell’impatto sociale della tecnologia e nel momento in cui – come ci ha insegnato a nostre spese la pandemia – non basta avere i medici capaci di fare operazioni rarissime e costosissime, ma è anche necessaria una sanità diffusa sul territorio. Per non parlare di quello che è successo presso le facoltà umanistiche, dove si è preteso di trasmettere non un bagaglio culturale permanente, quanto mai utile in una realtà in continua trasformazione, bensì poche regole pratiche, oltretutto insegnate ex cathedra e su libri, per diventare giornalisti, il tutto nel momento in cui i giornali e le televisioni sparivano. Non vedo assolutamente niente da salvare in queste riforme se non la preoccupazione che ha mosso i meglio intenzionati tra i riformatori, e cioè la necessità di adeguare l’università ai tempi nuovi. Ma credo che questi benintenzionati fossero una minoranza, la maggioranza essendo composta da teste mediocri e da persone interessate a moltiplicare gli insegnamenti per poter accrescere la propria influenza.

(SB): Che cosa dovrebbe essere e fare un professore universitario di filosofia (o comunque di discipline umanistiche), e una Facoltà di Lettere e Filosofia, e che cosa sono invece diventati o costretti a fare? Prima delle riforme andavano bene com’erano o avrebbero dovuto essere cambiati (in altro modo)?

(MF): Sgombriamo prima di tutto il campo da un equivoco. Prima della riforma le cose non andavano assolutamente bene. In Italia, così come in molti altri paesi l’università non era meritocratica né fra gli studenti né fra i professori, e ricordo, come studente e giovane professore, colleghi che oggi sarebbero impensabili e improponibili. La media del corpo insegnante, oggi, è superiore a quella del corpo insegnante di qualche decennio fa, ma va considerato un punto decisivo. E cioè che qualche decennio fa i professori erano pochi, dunque avevano una scarsa incisività sul tessuto sociale, tuttavia la mancanza di regole che governava la professione, soprattutto nelle discipline umanistiche, poteva permettere la nascita di fenomeni di eccellenza assoluta che la normalizzazione intervenuta in seguito non ha favorito. Per chi poi aveva fortuna, come me, di diventare professore sotto i trent’anni, c’è stata l’enorme possibilità di trasmettere agli studenti la forza e l’entusiasmo del momento più creativo della vita, e l’assunzione di responsabilità che deriva dal non dover obbedire a nessuno. Invece il lungo iter impostosi successivamente, che fa sì che sino a trent’anni e più si sia studenti sotto la guida di un professore, e che raramente prima dei cinquant’anni si abbia una qualche autonomia di insegnamento, non è certo fatto per produrre innovazione.

Fatte queste premesse, credo che un insegnante di discipline umanistiche, e soprattutto di filosofia, che diversamente dall’architettura, l’ingegneria, la giurisprudenza, la medicina, non ha un evidente sbocco professionale, debba guardarsi dalla tentazione dell’autoreferenzialità. E certo autoreferenziale era la filosofia che ho conosciuto come studente e che consisteva in larghissima misura in storia della filosofia, in ermeneutica, ossia di nuovo in storia della filosofia ma con meno nomi e meno date, e da un certo momento in avanti in filosofia analitica, ossia in una forma di nuova scolastica. Comunque, sia pure nei loro limiti, tutte queste discipline mi hanno insegnato molto: ma sicuramente i tempi favorivano l’autoreferenzialità, perché a quell’epoca lo sbocco naturale del filosofo era diventare professore di filosofia, nelle secondarie o all’università. Adesso invece ci sono le condizioni perché tutto cambi. In una società complessa e in rapida trasformazione, in una società in cui la visione e la sintesi contano molto più della specializzazione e dell’analisi, i filosofi hanno trovato una nuova ragion d’essere e possono spendersi sul mercato con utilità propria e della società. E questo senza trasformarsi in figure professionali subalterne come avveniva all’epoca dei corsi di laurea in Scienze della Comunicazione. C’è molto disordine sotto il cielo ma molto si può fare e sono tempi eccellenti per la filosofia. Solo, bisogna volerlo, e prima di tutto bisogna pensarlo.

(SB): È corretto sostenere che le riforme e iniziative che hanno danneggiato l’università sono state bipartisan e distribuite in parti uguali quanto a responsabilità? Come spiegherebbe questa convergenza? Se è prevedibile un’impostazione “aziendalistica” delle destre neoliberali, le sinistre hanno una vena anti-intellettualistica o antiaccademica?

(MF): Se “aziendalismo” significa premiare il merito e la capacità, e se “anti-intellettualismo” significa riconoscere che ci sono moltissimi studi che non meritano di essere fatti perché sono futili o stupidi, allora non ho niente da obiettare in linea di principio contro l’aziendalismo e l’anti-intellettualismo. Purtroppo, e non solo in Italia, l’aziendalismo è spesso un fenomeno parassitario e gregario, l’intellettualismo è semplicemente un atteggiamento gergale fatto perché i membri di una tribù autoproclamatasi intelligente si riconoscono fra di loro, e l’anti-intellettualismo è la semplice ignoranza. Se le cose stanno in questi termini, è tutto sommato inutile recriminare sul passato o indugiare su etichette che in fin dei conti dicono poco, e conviene piuttosto orientare le proprie energie per rinnovare le aziende, le università, la politica.

(SB): La classe accademica (ossia i docenti all’epoca in posizioni apicali) è stata travolta o complice? Come e perché?

(MF): Mi sembra inutile, anche in questo caso rivangare il passato. Errori sono stati fatti, per i motivi più sbagliati, tra cui non va mai dimenticato il motivo dei motivi, ossia l’imbecillità, che alligna agli apici come ai pedici. Ma lasciamo che i morti seppelliscano i morti.

(SB): C’è qualcosa (osservazioni, previsioni) rispetto a cui (2001, 2009) si è ricreduto, nel bene o nel male?

(MF): No, non mi sono ricreduto su niente, può darsi che sia un imbecille anch’io perché solo gli imbecilli non cambiano opinione, ma sicuramente sarei stato più felice di essere smentito.

(SB): Pensa che i danni di quanto andava denunciando e deplorando siano ben visibili nella società attuale? Come?

(MF): Sarebbe molto facile a questo punto attaccare la nota melodia di una società travolta dall’ignoranza e dunque consegnata al populismo. Tranne che questa melodia è stonata, o, più esattamente, è sbagliata. L’Italia di un secolo fa era piena di analfabeti. Oggi non più, e ciò deriva, in pari misura, dal fatto che le scuole secondarie si sono innervate sempre di più dentro al tessuto sociale. E se l’università, nel suo tentativo di diventare università di massa, ha commesso errori gravissimi e spesso è venuta meno alla sua vocazione, il web ha offerto a milioni di persone una quantità enorme di testi e di conoscenze. Ovviamente anche di testi sbagliati, di dottrine terrapiattiste, machiste, razziste, complottiste, sessiste: perché questa è l’umanità, questo siamo noi. Malgrado questo, si è trattato di un processo infinitamente più carico di conseguenze di ciò che offrivano i vecchi canali televisivi e i vecchi mezzi di informazione di massa. Si è prodotto qualcosa di un’importanza incalcolabile: le persone hanno incominciato a pensare con la propria testa, mentre prima pensavano con la testa di chiese, partiti, famiglie, imbonitori televisivi.

Sarebbe davvero chieder troppo pretendere che nel momento in cui le persone incominciano a pensare con la propria testa pensino anche in maniera responsabile, intelligente, originale. Questo accade raramente ai professori, che lo fanno per professione, figuriamoci per tanti altri che hanno di meglio e di più importante da fare. Tuttavia, il fatto di pensare con la propria testa costituisce un principio illuministico importantissimo e irrinunciabile, che pone l’umanità contemporanea a un livello infinitamente superiore alle umanità che l’hanno preceduta. E se l’epoca attuale sembra composta da imbecilli, ciò dipende semplicemente dal fatto che tutto ciò che diciamo è registrato e documentato, mentre prima in grandissima misura si perdeva nell’oblio. Ma osare pensare con la propria testa costituisce il primo passo di un processo che, in tempi non sappiamo quanto lunghi, e verosimilmente molto più lunghi di quanto non sia desiderabile, conduce a imparare a pensare mettendosi nella testa degli altri e a imparare a pensare d’accordo con sé stessi, ossia in maniera conseguente. Perché questo avvenga, tuttavia, non basta pregare o attendere un messia; bisogna fare tutto il possibile per incrementare la cultura dell’umanità presente e a venire. Senza mai dimenticare, ovviamente, che c’è il rischio fortissimo che il pedagogo o l’acculturatore, in parole povere il professore, il filantropo, il predicatore, ossia per esempio io in questo momento, sia non meno stupido degli stupidi che vuole emendare ed educare. Ma è un rischio che va corso.

(SB): I fenomeni di cui parla sono globali. Potrebbe, tuttavia, indicare un paese che offre un modello virtuoso, o “meno peggio”, e spiegare perché?

(MF): In generale, l’Europa è di gran lunga meglio tanto degli Stati Uniti e del Regno Unito, quanto della Cina. Mi rendo conto che, soprattutto nel caso dei paesi anglosassoni, si parla di modelli che sono sempre offerti come esempio di eccellenza. Ma ci si dimentica che questo vale per una fascia minima della popolazione, che può permettersi le rette altissime di università private. Per quanto riguarda la Cina, è attualmente impegnata in uno sviluppo e in una competizione tecnologica che la porta molto lontana dagli ideali di uno sviluppo umanistico conforme con il nostro modo occidentale di concepire la vita: fermo restando che in Cina il confucianesimo svolge la stessa funzione che da noi assolve l’umanesimo, e che dunque è miope giudicare delle culture molto diverse dalle nostre. Se restiamo dunque nel quadro di culture omogenee, mi sembra che il fatto che nell’Europa continentale esistano molte università capaci di dare una educazione di buona, anche se non eccelsa, qualità, per i motivi che abbiamo detto, a un prezzo incomparabilmente più basso di ciò che avviene nel mondo anglosassone, costituisca un aspetto che non va minimamente trascurato. Così come non va trascurato il fatto che migliorare questa educazione, soprattutto correggendo gli errori del passato, costa molto di meno che riformare un intero sistema, come sarebbe il caso degli Stati Uniti.

(SB): Il libro accenna a due fenomeni distinti: la licealizzazione e l’aziendalizzazione. La prima è l’impostazione delle università come licei per quanto riguarda il livello dell’insegnamento impartito. La seconda è la gestione delle facoltà secondo criteri e linguaggio aziendali, promettendo la spendibilità professionale (in azienda) della formazione offerta, e l’immissione di insegnamenti che permetterebbero tale spendibilità. Mi sembra di capire che Lei non è contrario all’esistenza di università-liceo (posto che in un Paese non tutte lo siano, e che la licealizzazione non venga imposta a chi è di alto livello come Lei), ma che è contro la licealizzazione quando questa è solo un’etichetta fuorviante che nasconde l’abbassamento di livello dell’insegnamento, o il suo caos, e l’azzeramento della ricerca, conseguenza dell’aziendalizzazione. Ho interpretato bene il suo pensiero?

(MF): Il problema della licealizzazione non è tanto il fatto che l’università si trasformi in un liceo ma nel fatto che si trasforma in un sub-liceo, ossia in un liceo di scarsa qualità. Ciò dipende non solo dalla università, ma anche dagli studenti, che non hanno più l’età in cui possono trarre il massimo vantaggio dagli apprendimenti liceali. Quindi sarebbe sicuramente meglio che le persone imparassero le nozioni liceali al liceo e le nozioni universitarie all’università. Se ciò non è possibile, un ripiego può essere sempre possibile, quello appunto di fare imparare le cose del liceo all’università. Ma, per l’appunto, è un ripiego.

(SB): Un’università aziendalizzata nei termini in cui Lei ne parla automaticamente non crea teste colte, pensanti e critiche. Un’università licealizzata (secondo la prima accezione, accettabile, discussa prima) può formare una testa pensante e critica? Le università italiane prima delle riforme, e le facoltà umanistiche in particolare, lo facevano? Si potrebbe dire che le classi dirigenti che hanno demolito/aziendalizzato le università (o che non hanno saputo e voluto opporsi alla demolizione/aziendalizzazione) in fondo erano state formate in università di vecchio stampo ... Oppure tale demolizione si è affermata a causa di soverchianti e inarrestabili fenomeni globali, come il richiamo del profitto e l’ascesa al potere di dirigenti appunto non passati per le università?

(MF): Nel parlare di “università” bisogna per l’appunto evitare l’illusione che l’antico sia preferibile al moderno. Come è sbagliato pensare che le università di una volta fossero il bene, così è sbagliato pensare che le aziende di oggi siano il male. Di certo le aziende di oggi assomigliano molto di meno a quella descritta da Fantozzi, e da questo punto di vista sono molto più interessate a dialogare con l’università e con i saperi umanistici di quanto non fossero le fabbriche fordiste. Quello che fa specie è però il fatto che spesso le università si propongono come interlocutrici delle aziende solo per fornire manodopera a basso costo invece che per costruire partenariati in cui l’università riesca a dare le risposte e l’azienda riesca a porre i problemi, che sono i due lati di un unico processo in cui consiste la modernizzazione.

(SB): Parlando con Lei di università il riferimento implicito e costante è alle discipline umanistiche. Ma anche facoltà come Ingegneria, Medicina, Economia, formavano, oltre che esperti, anche lo spirito critico (in epoca pre-riforma), oppure questo aspetto del singolo, una volta fosse entrato in tali facoltà, era tutto lasciato alla formazione liceale e al talento e alla coltivazione personale? Sarebbe, o sarebbe stato, auspicabile adottare un modello interdisciplinare in cui per esempio anche i futuri ingegneri, medici, economisti, seguissero corsi di discipline come storia, filosofia, logica, letteratura?

(MF): Tradizionalmente coloro che accedevano alle facoltà scientifiche avevano, almeno in Italia, alle spalle, una eccellente formazione umanistica. Questo non è più vero almeno da quarant’anni, ma non è vero tanto per le facoltà umanistiche quanto per le facoltà scientifiche. Se tuttavia vent’anni fa questa situazione non era avvertita come problematica, oggi lo è, e questo costituisce un altro argomento a favore del presente. Sono sempre più numerose le facoltà scientifiche e tecnologiche che avviano dei programmi umanistici. A Torino dirigo Scienza Nuova, un’istituzione interateneo fra Università e Politecnico [2] volta precisamente a creare nuove forme di competenza che – senza rinunciare allo specifico del sapere umanistico o del sapere scientifico – siano unificate dal riferimento alla tecnologia e sappiano rapportarsi nel modo più adeguato possibile alle richieste del presente.

(SB): Nel 2009 qualche passaggio del libro lasciava spazio alla speranza o all’esortazione ad agire. C’è ancora? È possibile ancora fare qualcosa, nel 2021? Che cosa? O tanto vale cercare una ... “salvezza individuale”?

(MF): Penso che la salvezza individuale sia soltanto un nome eufemistico per il farisaismo, ossia per la convinzione che il nostro valore morale consista nelle idee che professiamo e non nelle azioni che compiamo. Ed è proprio pensando a questo che mi sarei sentito un fariseo se mi fossi limitato a scrivere Una Ikea di università e non avessi costruito, quando se ne sono date le condizioni politiche grazie a due rettori particolarmente lungimiranti, per creare Scienza Nuova.

(SB): In riferimento alla seconda parte della domanda precedente. Molti della mia generazione, per forza di cose, pur avendo magari un’aspirazione al “sapere assoluto” hanno potuto solo trovare spazio in “università-liceo” o, peggio, in istituzioni altamente aziendalizzate. Se è certamente deplorevole che una persona con una formazione di alto livello sia costretta a licealizzarsi, è comunque possibile che un docente universitario con una solida preparazione e motivazione riesca a ritagliarsi uno spazio di eccellenza, di originalità quanto a ricerca e pensiero, seppur immerso in un contesto “liceale”? Ed è possibile, al limite, in un’università aziendalizzata?

(MF): Non dimentichiamoci che le università in cui hanno insegnato persone come Kant erano delle specie di licei, con pochi professori che insegnavano tutto e il Re di Prussia che promulgava decreti in cui ingiungeva a quei professori di non limitarsi, a lezione, a leggere ad alta voce manuali scritti da altri professori. E non dimentichiamoci che uno come Leibniz, che non ha del tutto demeritato in filosofia, non ha mai insegnato in università, come tantissimi altri filosofi del suo tempo, ma ha lavorato in azienda, ossia nelle miniere dello Harz e poi dentro all’amministrazione del Granducato di Hannover, che di nuovo era l’equivalente di un’azienda (dopotutto, la Royal Family inglese si riferisce a sé stessa come “la ditta”). In altri termini non dobbiamo sottovalutare i vantaggi che vengono tanto dal liceo quanto dall’azienda. Il liceo ha dalla sua la caratteristica di impedire che chi insegna si riduca allo specialismo dissennato per cui si sa tutto di una cosa e niente di tutto il resto. L’azienda è un posto in cui la realtà è particolarmente urgente e spesso spietata, ma anche particolarmente ricca, avanzata, piena di promesse. Dunque, cerchiamo di evitare di vedere nella decadenza dell’università o nella sua aziendalizzazione una giustificazione per quello che non possiamo, non vogliamo, o non riusciamo a fare. Ricordo molto bene quando ero studente un illustre professore che diceva che oramai l’università non contava più niente. Mi chiesi allora, e mi chiedo ancora adesso: ma se non conta più niente perché non cerchi di fare in modo che conti qualcosa? Ovviamente è il punto di partenza che ognuno di noi si deve dare, pur sapendo che il punto d’arrivo dipende dalle nostre capacità, dalla nostra volontà e soprattutto dalla nostra fortuna.

NOTE

[1] L’intervista si è svolta per iscritto tra l’8 marzo e il 10 aprile 2021. La presente versione è stata approvata dal professor Ferraris, a cui la Redazione esprime la sua gratitudine. Il nostro ringraziamento va anche alla dottoressa Erica Onnis per la gentile assistenza.

[2] www.scienzanuovainstitute.com/ Il professor Ferraris è anche presidente del LabOnt (Laboratorio di Ontologia): https://labont.it/