Dal terremoto di Lisbona al razionalismo: le concezioni post-metafisiche del male

Maria Turchetto Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Di fronte alla tragedia che stiamo vivendo, può sembrare inopportuno, o quanto meno ozioso, richiamare un evento remoto come il terremoto di Lisbona del 1755 e ripercorrere le riflessioni filosofiche di quel periodo – quando sembra ben più urgente interrogarsi sulle questioni pratiche.

Eppure quelle riflessioni filosofiche – in cui si cimentarono le più belle menti dell’epoca: Voltaire, Rousseau, Kant – sono molto importanti perché segnarono una svolta nella storia del pensiero occidentale: il dibattito sul terremoto di Lisbona può infatti essere considerato l’atto di nascita dell’Illuminismo e dell’ateismo moderno. E sono ancora attuali, perché la ragione, con i cui “lumi” si cercò allora di affrontare la catastrofe, non prevale tanto facilmente su meccanismi più “spontanei” di reazione ai disastri: meccanismi che cercano colpe e castighi, che si interrogano sul “senso” più che sulle cause del male.

Il grido di Voltaire

La terra tremò e l’acqua si rovesciò a tonnellate su Lisbona la mattina del primo novembre 1755. Lisbona era una grande città, nonostante l’impero portoghese fosse già stato ridimensionato dalle guerre coloniali con l’Olanda. Andrea Tagliapietra, che ha raccolto in volume gli scritti di Voltaire, Rousseau e Kant sull’argomento [1], cita in proposito, nella sua Introduzione, una trasmissione radiofonica di Walter Benjamin [2]: “Dire Lisbona distrutta  era, per quell’epoca, un po’ come dire oggi, per noi, Chicago o Londra distrutte”.

Cosa si dice di fronte alla notizia “Lisbona distrutta”?

È un castigo divino! dissero i gesuiti portoghesi.

Ben pochi cattolici oggi lo dicono – con le ormai consuete eccezioni di personaggi come padre Livio Fanzaga (il boss di Radio Maria) e l’ineffabile Roberto de Mattei [3]. Molti esponenti del clero si sono anzi precipitati a precisare che la pandemia “non è un castigo divino”. E una ragione c’è. I gesuiti, che ostacolavano gli sforzi per la ricostruzione di Lisbona, furono cacciati dal Portogallo dal primo ministro laico Pombal. Bella reazione pratica, tuttavia preceduta da una potente reazione filosofica.

Castigo per cosa? Si chiese Voltaire. E come la mettiamo con gli innocenti?

Qual crimine, qual peccato commisero questi bimbi
Schiacciati e ricoperti di sangue sul seno materno?
Lisbona, ora annientata, ebbe forse più vizi
Di Londra o di Parigi, immerse nelle delizie? [4].

È il grido di Voltaire all’indomani del terremoto di Lisbona: il grido che appunto innesca la discussione filosofica.

La tesi di Leibniz

Le risposte alle imbarazzanti domande di Voltaire sono molteplici.

La prima suona più o meno così: non vorrete mica che Dio si metta a salvare gli innocenti uno per uno, con tanti miracoletti individuali, quando ha deciso di punire un intero popolo? Beh – si può facilmente ribattere – perché no? Perché non lo fa? Non può o non vuole? Perché nel primo caso non sarebbe onnipotente, nel secondo caso non sarebbe misericordioso…

La seconda risposta è la seguente: non possiamo conoscere i piani di Dio e di conseguenza non possiamo escludere che questo male sia voluto in vista di un maggior bene. Questo è l’argomento tratto dalla Teodicea di Leibniz [5], che è proprio il testo con cui Voltaire se la prende violentemente nel Poema sul disastro di Lisbona [6].

Quella di Leibniz è una risposta in qualche modo “laica” al problema del male nel mondo. Se non conosciamo i piani di Dio, ne segue che dobbiamo rinunciare a interpretare gli eventi in termini di premi e castighi – dunque dobbiamo anche smettere di praticare in questi termini la fede religiosa e vivere etsi deus non daretur. È una posizione che definirei quasi agnostica, che tra l’altro ridimensiona fortemente l’antropocentrismo della religione cristiana: se non conosciamo i piani di Dio, non possiamo presumere che abbiano al centro l’uomo [7]. Ma è una posizione che conserva un aspetto consolatorio della religione: la certezza che Dio operi sempre per il bene.

Voltaire non accetta questa consolazione:

E voi, in questo caos fatale, dedurreste
Dalle sofferenze di ogni essere una felicità generale!
[…]
Voi gridate: «Tutto è bene», con voce incrinata di lacrime,
L’universo vi smentisce e il vostro stesso cuore
Cento volte del vostro spirito ha confutato l’errore.
[…]
Bisogna ammetterlo: il male è sulla terra [8].

Come sostenere che “tutto è bene”, che questo è il migliore dei mondi possibili di fronte al disastro di Lisbona? È insultante per le vittime, è impietoso: non lascia nemmeno il diritto al dolore e alla rabbia.

Com’è noto, Voltaire continuerà negli anni a venire a riproporre questa critica a Leibniz, con argomenti filosofici come con l’arma sottile della satira. All’indomani del terremoto di Lisbona, quando scrive il Poema, è semplicemente scandalizzato dagli argomenti della Teodicea.

La risposta di Rousseau

Arriva intanto la risposta di Roussau al Poema di Voltaire. Dopo alcuni salamelecchi (“vi ho riconosciuto la mano del maestro”), Rousseau esprime la propria insoddisfazione per il pessimismo radicale espresso da Voltaire e dichiara di voler parlare chiaro, da “amico della verità” [9]. Sicuramente guarda dritto in faccia il problema teologico sollevato da Voltaire esplicitandolo: di fronte al male, l’idea di un Dio onnipotente e quella di un Dio misericordioso risultano inconciliabili.

Che fare? Rousseau desidera mantenere – per sé e soprattutto per i poveracci che subiscono le tragedie senza il conforto dei “lumi della ragione” [10] – una certa dose di ottimismo. Lasciamo dunque ai poveri di spirito l’idea del Dio misericordioso, senz’altro più confortante di quella del Dio terribile castigatore. Anche a costo di metterne un po’ in dubbio l’onnipotenza o quanto meno il puntiglioso rigore: “Un re saggio, che vuole che ognuno viva felice nel suo regno, ha forse bisogno di sapere se le locande che vi si trovano sono pulite?” [11].

Quanto ai filosofi e agli uomini di cultura, che poveri di spirito non sono, faranno meglio a mettere da parte Dio e i giudizi su Dio (le teodicee) per interrogarsi piuttosto sulle responsabilità degli uomini.

Credo di aver dimostrato che eccetto la morte, che è un male solo se la si considera alla luce del modo con cui la aspettiamo e ci prepariamo ad essa, la maggior parte dei mali naturali di cui siamo afflitti sono anch’essi opera nostra. Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto. Ma bisogna restare, ostinarsi intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse, perché quello che si lascia vale più di quello che si può portar via con sé. Quanti infelici sono morti in questo disastro per voler prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi?

[…] Avreste voluto – e chi non l’avrebbe voluto! – che il terremoto si fosse verificato in una zona desertica, piuttosto che a Lisbona. Si può dubitare che non accadano sismi anche nei deserti? Soltanto che non se ne parla perché non provocano alcun danno ai Signori delle città, gli unici uomini di cui si tenga conto. Del resto, ne provocano poco anche agli animali e agli indigeni che abitano, sparsi, questi luoghi remoti e che non temono né la caduta dei tetti, né l’incendio delle case [12].

“Credo di aver dimostrato…”: perché Rousseau ha già proposto questa critica alla civilizzazione, all’allontanamento dallo stato di natura, alla formazione di collettività troppo estese nel Discorso sulla diseguaglianza: “Ecco le prove funeste che i nostri mali sono per la maggior parte opera nostra e che li avremmo evitati quasi tutti mantenendo la maniera di vivere semplice, uniforme e solitaria che ci era prescritta dalla natura” [13]. Com’è noto, riprenderà ampiamente questi temi negli anni a venire.

La risposta di Kant e i tardivi conti con la teodicea

Un accenno, infine, alla posizione di Kant, che l’anno successivo al terremoto pubblica tre brevi saggi: Sulle cause dei terremoti in occasione della sciagura che ha colpito le terre occidentali d’Europa verso la fine dell’anno trascorso (gennaio 1756), Storia e descrizione naturale degli straordinari eventi del terremoto che alla fine del 1755 ha scosso gran parte della terra (marzo 1756) e Ulteriori considerazioni sui terremoti avvertiti da qualche tempo (aprile 1756).

È un Kant molto giovane quello che interviene sulla catastrofe di Lisbona, un Kant decisamente “scientista”: la sua principale preoccupazione è verificare se sia possibile, con le attuali conoscenze scientifiche, dare una spiegazione pienamente naturalistica dei terremoti e magari azzardare qualche sensata previsione o qualche razionale criterio di urbanizzazione per prevenire i disastri. Elucubrare sulle intenzioni di Dio – se operi per punire o per trarre dal male un maggior bene – risulta dunque vano rispetto alla ricerca scientifica delle cause, cioè delle “leggi stabili” che governano la natura.

La natura non ha invano dispiegato ovunque un tesoro di fenomeni rari per l’ammirazione e l’osservazione dell’uomo […]. Persino lo strumento terribile del flagello del genere umano, i sismi che scuotono le terre, la furia degli abissi marini sconvolti, i monti che vomitano fuoco, sollecitano l’uomo a indagare e anch’essi sono stati posti da Dio nella natura quale esatta conseguenza di leggi stabili, non meno di altre cause consuete di sventura, ritenute più naturali solo perché più familiari.

L’osservazione di simili eventi è istruttiva. Essa umilia l’uomo […]: per questa via egli apprende a riconoscere che il regno dei suoi desideri non esaurisce semplicemente lo scopo a cui tutto è intento [14].

Risuona qui la ripresa della critica all’antropocentrismo che abbiamo già visto all’opera nella Teodicea leibniziana, declinata piuttosto decisamente nei termini di un Dio fainéant [15] – un Dio cioè che, dopo aver creato l’universo e le sue inesorabili leggi, le lascia agire senza intervenirvi; posizione ormai pericolosamente prossima a quella laplaciana che fa di Dio un’ “ipotesi superflua” [16].

Un richiamo a Leibniz – in questo caso al tema del male che alimenta il bene – è rintracciabile anche nel paragrafo del secondo saggio dedicato all’utilità dei terremoti, svolto tuttavia in chiave tutta naturalistica: le stesse cause che provocano i terremoti, e che vorremmo eliminare, alimentano le acque termali, formano le vene metallifere, arricchiscono il regno minerale altrimenti soggetto a consunzione [17].

Ben presente il tema caro a Rousseau della responsabilità degli uomini:

È facile pronosticarlo: se gli uomini edificano su un suolo saturo di materiali infiammabili prima o poi tutta la magnificenza delle loro costruzioni si trasformerà in macerie a causa delle scosse sismiche. Forse che per questo dobbiamo ribellarci ai decreti della provvidenza? Non sarebbe più giusto giudicare così: era necessario che si verificassero talvolta terremoti sulla terra, mentre non lo era affatto che noi vi costruissimo lussuosi palazzi? Gli abitanti del Perù abitano in case la cui struttura muraria giunge solo fino a una certa altezza, mentre il resto è fatto di canne. È l’uomo a doversi adattare alla natura, mentre egli pretenderebbe che avvenisse il contrario [18].

E degno di nota l’appello finale alla responsabilità dei principi: se non possiamo evitare i terremoti, ma tutt’al più limitarne razionalmente i danni, almeno i principi vedano di “allontanare la miseria della guerra da coloro che già da ogni parte sono minacciati da gravi disgrazie” [19]. La tematica etico-teologica è comunque, nel complesso, abbastanza marginale nei tre saggi del giovane Kant, in cui prevale decisamente l’interesse scientifico per la spiegazione dei terremoti. La quale risulta oggi datata [20] – salvo qualche intuizione – quanto al merito, ma preziosa quanto al metodo. Come scrive Paola Giacomoni, Kant mostra

Una sensibilità scientifica raffinata, una capacità di osservazione attenta, anche se di seconda mano, una cautela consapevole dei limiti delle conoscenze disponibili […]. Kant non consola, ma non drammatizza, ama la lucidità e la precisione, non supplisce con ipotesi immaginose alle mancanze dell’epoca. Raccoglie dati e non finge teorie. Molto rimane da fare, ma la strada intravista non è del tutto sviante. Basta accettare di essere una parte dell’universo e non il tutto, sapendo che i reconditi disegni divini potranno un giorno essere almeno in parte chiariti [21].

Occorre aggiungere che l’idea di un “disegno” – divino, provvidenziale, naturale che sia – viene decisamente meno nel Kant maturo della Critica del giudizio. Oltre trent’anni dopo il terremoto di Lisbona, Kant argomenterà infatti, nella critica del giudizio teleologico, l’impossibilità di ricavare dalla natura un sistema di fini. In quest’ottica le catastrofi naturali risultano sicuramente più drammatiche, proprio perché prive di senso, espressione del cieco meccanismo della natura, senza che alcuna benevola provvidenza possa consolare. E non a caso, dopo le tre critiche, Kant chiuderà definitivamente i conti con l’ottimismo leibniziano scrivendo, nel 1791, Sul fallimento di ogni tentativo di teodicea in filosofia [22].

Tornando a noi

Percorrendo il dibattito filosofico seguito al terremoto di Lisbona assistiamo a una sorta di progressivo depotenziamento di Dio: se Voltaire si ribella a un Dio onnipotente poco misericordioso, Rousseau cerca di salvare un Dio misericordioso ma un po’ approssimativo; e se il giovane Kant ammette ancora l’esistenza di piani remoti di un Dio fannullone, il Kant maturo conclude che nessun progetto e nessun fine regge il mondo. All’allontanamento di Dio corrisponde un richiamo sempre più importante alla responsabilità degli uomini, chiamati a dismettere le pretese di dominio e l’arroganza nei confronti della natura e a valutare razionalmente i rischi del loro agire.

Questo insegnamento ragionevole e pacato, tanto più valido ai nostri giorni, è certamente assai difficile da recepire in una società che a tutti i costi persegue il profitto – ostinandosi a chiamarlo “crescita”. Per non dire di quanto il mondo oggi sia sordo alla supplica kantiana “evitiamo almeno le guerre!”. Ma è addirittura incredibile che nel terzo millennio non risulti del tutto acquisita nemmeno la condanna morale – unanime tra i filosofi che abbiamo citato – delle interpretazioni teologiche preleibniziane del terremoto in termini di castigo divino, del loro sfruttamento per dominare i deboli e per fomentare il fanatismo religioso. Judith Shklar ha scritto, a proposito del dibattito illuminista sul terremoto di Lisbona:

È stata l’ultima volta che i piani di Dio sull’uomo sono stati oggetto di un dibattito pubblico generale […]; fu l’ultima significativa protesta contro l’ingiustizia divina, che di lì a poco sarebbe diventata intellettualmente irrilevante [23].

Ma è un’illusione illuminista che la ragione possa prevalere sull’oscurantismo per il solo fatto di essere enunciata.

Note

[1] Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe. L’illuminismo e la filosofia del disastro, a cura di A. Tagliapietra, Bruno Mondadori, Milano 2004.

[2] Il programma fu trasmesso dal Frankfurter Rundfunk il 31 ottobre 1931; il testo in traduzione italiana si trova in W. Benjamin, Opere complete, a cura di E. Gianni, vol. IV, Scritti 1930-1931, Einaudi, Torino 2002, pp. 509-514.

[3] Ricordando con Bernardino da Siena che tria sunt flagella quibus dominus castigat (tre sono i flagelli con cui Dio castiga i popoli: guerra, pestilenza e fame), la “teologia della storia” inventata da Roberto de Mattei sostiene che “Dio premia e punisce non solo gli uomini, ma le collettività e i gruppi sociali: famiglie, nazioni, civiltà. Ma mentre gli uomini hanno la loro ricompensa o il loro castigo, a volte in terra, ma sempre nell’eternità, le nazioni, prive di vita eterna, vengono punite o premiate solo in terra”.
Si veda tinyurl.com/yb8jtxl8

[4] Voltaire, Poème sur le désastre de Lisbonne (1756), tr. it. Poema sul disastro di Lisbona, in Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe, cit. p. 4.

[5] G. W. Leibniz, Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal (1710), tr. it. Saggi di teodicea, a cura di G. Cantelli, Rizzoli, Milano 1993.

[6] Più precisamente, l’antagonista polemico diretto di Voltaire è Alexander Pope, autore dell’Essay on Man, che espone in forma di poema la teodicea leibniziana; ne esiste una traduzione italiana con testo inglese a fronte, a cura di A. Zanini, Liberilibri, Macerata 1994.

[7] “È certo che Dio tiene in maggior conto un uomo che un leone; tuttavia non so se si possa affermare che Dio preferisce un solo uomo all’intera specie dei leoni […]; ma quand’anche ciò fosse, non seguirebbe affatto che l’interesse di un certo numero di uomini possa prevalere sulla considerazione di un disordine generale diffuso in un numero infinito di creature. Questa considerazione sarebbe un residuo dell’antica massima, assai screditata, secondo la quale tutto è fatto unicamente per l’uomo» (Leibniz, op. cit., tr. it. p. 251). Voltaire mostra di aver ben presente questo passo in un esplicito riferimento nella Prefazione al Poema sul disastro di Lisbona (Voltaire, op. cit., tr. it. pp. 1-2).

[8] Voltaire, op. cit., tr. it. p. 6.

[9] J.-J. Rousseau, Lettre à François-Marie Arouet de Voltaire (18 août 1756), tr. it. Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona, in Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe, cit., p. 23.

[10] Ivi, p. 32.

[11] Ivi, p. 31.

[12] Ivi, pp. 24-25.

[13] J.-J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (1755), tr. it. Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza fra gli uomini, in Scritti politici, a cura di M. Garin, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 146.

[14] I. Kant, Von den Ursachen der Erderschütterungen bei Gelegenheit des Unglücks, welches die westliche Länder von Europa gegen das Ende des vorigen Jahres betroffen hat (1756), tr. it. Sulle cause dei terremoti in occasione della sciagura che ha colpito le terre occidentali d’Europa verso la fine dell’anno trascorso, in Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe, cit., p. 63.

[15] In Dal mondo chiuso all’universo infinito, Alexandre Koyré chiarisce in modo molto efficace  le diverse posizioni di Newton e di Leibniz spiegando che per entrambi l’universo è opera del Dio biblico creatore, ma per Newton si tratta del Dio dei primi sei giorni, ossia il Dio laborieux che crea il mondo e continua a intervenirvi, mentre per Leibniz si tratta del Dio del sabbath, il Dio féneant appunto che dopo aver creato il mondo si riposa (A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, Milano 1970, p. 178 e ss.

[16] Si dice che Simon de Laplace, dopo aver illustrato a Napoleone la sua Exposition du système du monde del 1796, interrogato sul ruolo di Dio in tale sistema rispose: “Sire, non ho avuto bisogno di questa ipotesi”.

[17] I. Kant, Geschichte und Naturbeschreibung der merkwürdigsten Vorfälle des Erdbenbens, welches an dem Ende des 1755sten Jahres einen grosse Theil der Erde erschüttert hat (1756), tr. it. Storia e descrizione naturale degli straordinari eventi del terremoto che alla fine del 1755 ha scosso gran parte della terra, in Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe, cit., pp.82-84.

[18] Ivi, p. 83.

[19] Ivi, p. 87.

[20] Sostanzialmente Kant aderisce alla teoria “fuochista”, secondo la quale la causa essenziale dei terremoti è di origine ignea. È tuttavia ben consapevole della parzialità dei dati disponibili, che egli raccoglie dalle fonti che considera più affidabili e seleziona razionalmente con grande cura, come della natura congetturale delle ipotesi avanzate.

[21] P. Giacomoni, Kant e i terremoti delle teorie, in appendice a Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe, cit., p. 140.

[22] È forse superfluo spiegare che il “fallimento” della teodicea proclamato da Kant non significa “condannare Dio” per il male nel mondo, ma rilevare l’insuperabile contraddittorietà degli assunti teologici sull’argomento.

[23] J. N. Shklar, I volti dell’ingiustizia. Iniquità o cattiva sorte?, Feltrinelli, Milano 2000, p. 65.